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Giornale di Vicenza: Questa “maturità” degradata e debole

SCUOLA. Un “oggetto” sempre più misterioso . Ormai è solo un sesto grado burocratico

17/07/2006
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Il Giornale di Vicenza

di Paolo Lanaro

Un amico e collega dice: «Bisognerebbe scrivere qualcosa su questi esami di maturità…». Bisognerebbe sì, ma cosa? L’esame di maturità ha un nome pomposo ma una sostanza che ricorda quella del caco: filamentosa, molle, indefinita.
Non è stato sempre così. Le generazioni cresciute nel disciplinato ordinamento gentiliano ricordano l’esame come un incubo. Era una forca caudina. Per di lì si doveva transitare per diventare qualcosa. Pur con i suoi difetti, l’esame era un rito di passaggio che concedeva uno status indelebile. La maturità scolastica era la conclusione di un itinerario, l’epilogo austero di una vicenda che portava dritta alla soglia dell’adultità. Ma oggi? Nonostante il cumulo di carte, di certificazioni, di giudizi, il curriculum scolastico sembra diventato una rotaia su cui non scorre praticamente nulla. Dovrebbe essere un percorso durante il quale lo studente arricchisce le proprie conoscenze, sviluppa una socialità costruttiva, apprende l’importanza della propria responsabilità morale. Ma c’è da dubitare che questo avvenga. Avviene in molti casi il contrario. Le conoscenze sono casuali, la socialità appare arruffata e impulsiva, la responsabilità demandata a un domani indeterminato.
C’è chi pensa che risultati così sconfortanti siano da imputare a una scuola che non sa rinnovarsi e che continua a celebrare le proprie spossate liturgie. In parte è vero. Ci sono poteri scolastici che tolgono potere all’altro che cresce, che lo costringono al silenzio. Ma ci sono anche poteri economici, culturali, familiari che svolgono la stessa funzione. La scuola è un organo altamente sensitivo e coglie comunque con rapidità i cambiamenti di mentalità, le derive comportamentali, il disgregarsi dei significati sociali. Ma non è in grado da sola di remare contro. E del resto può la scuola essere una palazzina pulita e integra in mezzo a montagne di detriti? Può essere imparziale e correttamente selettiva in un contesto in cui si truccano perfino le partite di calcio? Il bello è che gli insegnanti, nonostante tutto, ci provano. Schiacciati da normative spagnolesche e da molto altro, gli insegnanti ingaggiano ogni giorno una onorevole battaglia in nome della cultura e di un dover essere che appartiene soltanto alla loro ostinazione. Affrontano la crisi di idealità, il disagio, le incongruenze amministrative, le umiliazioni salariali, con spirito di sacrificio. Continuano a guardare gli studenti che hanno davanti come fossero un materiale prezioso da riconsegnare intatto a una società assolutamente puntuale nel non saperlo utilizzare.
Dietro l’esame di maturità c’è questo. Uno sfondo fatto di acquiescenze, di degrado, di debolezza morale, di incapacità politica. Oggi l’esame si è ridotto a essere un festoso scambio di convenevoli. E un sesto grado burocratico. Chi scrive, per un totale di otto giorni di prove, ha dovuto firmare: un po’ di buste, ventiquattro schede dei candidati, ventisei verbali, duecentosessantotto tra compiti e “griglie”. Ha fatto somme, divisioni, medie. Ha “apposto” qualche centinaio di timbri. Ha felicemente concluso la sua opera sigillando con la ceralacca il plico contenente i materiali. In sé non c’è nulla di faticoso, ma non c’è neanche nulla di sensato. Si tratta di un grottesco sistema di garanzie offerte ai candidati, che tuttavia non tiene conto del fatto che più si moltiplicano le procedure e più crescono le possibilità di errore.
In realtà l’esame di maturità è un oggetto sempre più misterioso. Nessuno sa bene ormai cosa significhi. Il concetto stesso di maturità è equivoco. Si tratta di maturità culturale o psicologica? Si è maturi tutti allo stesso modo o si è maturi in rapporto ai propri potenziali? E chi lo sa? Sono domande che cadono nel vuoto. È chiaro tuttavia che se è un esame non può essere, come oggi è, uno small talk e se non lo è, è meglio abolirlo definitivamente. Del resto, già da tempo, il titolo non ha più alcun valore effettivo e non serve nemmeno ad accedere all’università. L’esame è purtroppo simile a quelle cerimonie iniziatiche che in età ellenistica scandivano pratiche di culto di cui nessuno capiva più il senso.
Il risultato infine è che anche quest’anno abbiamo il nostro 98% di ragazzi maturi. Ci sarebbe da schiattare di soddisfazione se non sapessimo che una buona parte saremo costretti a venderli sottocosto o a lasciarli appesi al ramo delle loro belle speranze. Viene il dubbio che li promuoviamo perché probabilmente non sappiamo cos’altro fare. Promuovere viene dal latino e vuol dire spingere innanzi. Verso che?


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