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Gazzetta di Parma-SCUOLA dove vai?

SCUOLA dove vai? Bene o male, di scuola ci si sta interessando anche dopo la fine dell'estate, fuori dalla "notizia", e già questo è apprezzabile. Sullo sfondo di un declino industrial...

07/11/2003
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Gazzetta di Parma

SCUOLA dove vai?
Bene o male, di scuola ci si sta interessando anche dopo la fine dell'estate, fuori dalla "notizia", e già questo è apprezzabile. Sullo sfondo di un declino industriale dell'Italia, della perdita di competitività e della fuga dei cervelli (tutte cose legate), si attende il compimento della riforma Moratti coi nuovi "profili d'uscita" dei Licei, cuore dell'educazione nazionale. Corre voce di una forte diminuzione d'orario, che invaliderrebbe la possibilità, per gli studenti, di abitare la scuola come luogo di una vera esperienza formativa. Da apprezzare, il recente accordo "per lo sviluppo, l'occupazione e la competitività del sistema economico nazionale" siglato da Cgil, Cisl e Uil e Confindustria circa le "priorità condivise in materia di politiche per la ricerca e la formazione": al centro dell'accordo, così come del progetto di riforma, è la realizzazione di una formazione "continua" (imparare lungo tutto l'arco della vita) e soprattutto "integrata", in un'interazione virtuosa tra Ministero, Enti locali, scuole e mondo del lavoro.
In un'intervista di qualche mese fa Claudio Gentili (responsabile area Scuola e Formazione di Confindustria), auspicava in proposito l'intervento (la formazione?) di "professionisti dell'integrazione", ovvero di mediatori tra i differenti soggetti coinvolti dalla formazione integrata, per costruire punti di raccordo tra le diverse realtà del sistema formativo e le esigenze imprenditoriali. Ora, il profilo culturale e mentale del professionista dell'integrazione dovrebbe corrispondere esattamente al profilo ideale d'uscita delle scuole superiori: un esperto di management e di relazioni umane, se vogliamo, ma anche un esperto di linguaggi; un traduttore dei saperi e delle pratiche ad essi relative; un interprete e un professionista della connessione delle conoscenze e delle competenze, capace di accordare agevolmente le une alle altre. Insomma, quasi un filosofo.

Tra sapere e saper fare

"Dire è fare", titolava quasi un secolo fa un libro di J. L. Austin, un classico della filosofia e della linguistica pragmatica. I suoi effetti sono evidenti tanto nella politica che nella comunicazione ordinaria, ma anche nella scienza e in ogni ambito del sapere. E' la formula della "performatività" (parola che dalla linguistica è migrata nell'economia) ma è soprattutto un richiamo al fatto che, senza la dimensione enunciativa, senza la facoltà del raccontare, l'uomo non è in grado di compiere esperienze dotate di senso, né tantomeno di sviluppare un'immaginazione creativa. Il dissolversi della facoltà di compiere esperienze va di pari passo colla dissoluzione del linguaggio e delle facoltà comunicative. Ciò che non sappiamo dire, raccontare, è come se non lo avessimo fatto né vissuto. Non è strano che in ogni riformulazione del sistema scolastico, dell'istruzione come della formazione professionale, tra il "sapere" e il "saper fare" manchi tuttora un'esortazione al "saper dire", alle competenze linguistiche?

La rimozione dell'esperienza allontana dal mondo del lavoro le conoscenze trasmesse dalla scuola. Per cominciare a rompere il circolo vizioso, il divorzio tra vita e conoscenza, basterebbe forse portare l'esperienza pratica già nei Licei, e insieme riconoscere alla "filosofia" quella valenza universale di arte della connessione e di problem solving, studio della natura del conoscere e del comprendere, per cui essa è nata e si è sviluppata. Perché non pensare, ad esempio, a un liceo classico con esperienze di lavoro manuale, officine, corsi di economia e di management; e a una formazione professionale e tecnologica con lezioni di filosofia, di storia dell'arte e delle religioni? Di fatto, solo il superamento di questi steccati realizza quella formazione continua oggi da tutti auspicata in un'economia globale retta sulla conoscenza e la comunicazione. E' necessaria una revisione di che cosa sia "conoscenza" e cosa "competenza"; o, come scriveva anni fa il sociologo Edgar Morin, una "riforma dell'insegnamento e del pensiero" che lo sovrintende, compresi i concetti di lavoro e conoscenza. Qualunque riforma non può fare a meno di affiancare al "saper fare" un "saper dire", ovvero la consapevolezza di che cosa sia fare un'esperienza - di studio, di lavoro, di vita. Oggi l'informazione tecnologica corre più velocemente della formazione delle persone. E' come se consumatori e aziende non sapessero che cosa stiano facendo, e chiedono ad altri di educarli, di offrire loro un know how. Il problema dell'educazione è quello di imparare ciò che si sta facendo, che è il senso pieno dell'essere adulto. Un solo dato ufficiale: il 50% degli investimenti nel settore dell'information technology, negli Stati Uniti, è nell'educational. La prestazione dell'individuo nel servizio educativo, sottomettendosi a continui aggiornamenti, instaura uno scambio continuo in cui educatori ed educandi si determinano reciprocamente in un circolo economico-cognitivo: chi educa chi? Per realizzare un'istruzione flessibile, strategica, integrata (cui aggiungerei olistica ed ecologizzante), occorre ripensare l'educazione trasmessa da maestri. Maestro significa: coincidenza dell'insegnamento e dell'insegnante. Ma è anche uno specialista in consapevolezza, colui che risponde alla domanda: "che cosa stiamo facendo?".

La scuola e l'azienda

Ho letto su questo stesso giornale che "per riflettere sui nuovi bisogni formativi", trentatré presidi di scuole superiori delle province di Parma, Piacenza e Reggio Emilia si sono ritrovati nella sede dell'Unione industriali per simulare una lezione di impresa. E' la strada giusta, ma a fare il ponte tra educazione e lavoro (o impresa) deve concorrere una pluralità di saperi e strategie. Chiediamoci: perché tutte le proposte di riforma avanzate negli ultimi anni (comprese quelle dell'Ulivo), soprattutto in materia di formazione, sono state avversate da buona parte degli studenti e degli operatori? Il successo psicologico, culturale e politico di slogan contro l'"aziendalizzazione" delle scuole, ma anche delle (astratte) rivendicazioni di un'autonomia dei saperi, deve far riflettere. Non si tratta di contrapporre slogan a slogan, quanto di convincere con argomentazioni articolate e fondate a far crescere la cultura della formazione integrata nel Paese con la collaborazione strutturale del mondo imprenditoriale conciliando, col concorso di tutti, aumento delle conoscenze e crescita produttiva. Per realizzare una scuola integrata indispensabile alla competitività economica delle imprese e del Paese, bisogna operare ad una reciproca fecondazione tra mondo dell'impresa e mondo della scuola e dell'università. I giovani che fanno opposizione, ricordiamolo, sono spesso le menti più brillanti, flessibili e attente ai contesti.

Strategie di vita

Non si tratta solo di "non confondere i fabbisogni professionali (la domanda del sistema produttivo) con i percorsi formativi", come recita un documento di Confindustria. Occorre oggi riconoscere che le figure professionali e le imprese, se individuano degli obiettivi, non sono necessariamente in grado di evidenziare e predisporre i percorsi formativi e la rete di conoscenze tramite cui possono essere raggiunti. Non sanno necessariamente "che cosa stanno facendo". Il mondo imprenditoriale dovrebbe ragionevolmente accettare che, se può lecitamente permeare e indirizzare l'offerta formativa, anche l'universo dell'educazione (scuola, università, ricerca) può e deve plasmare e rinnovare la cultura imprenditoriale. A fronte di una trasmissione di conoscenza che sappia sciogliersi in competenza e in "soluzione dei problemi", l'impresa deve favorire il proprio costante ri-orientamento da parte di conoscenze capaci di organizzarsi in strategie. Edgar Morin sottolineava come "tutto l'insegnamento scolastico si attiene al programma, mentre la vita ci chiede strategia". Saperi orientati strategicamente mancano oggi tanto nella scuola quanto nella cultura imprenditoriale. Si tratta di comporre un circolo virtuoso. Perché essere competitivi significa tutt'altro che confermare se stessi (principio della stagnazione), ma vedere lontano, investire strategicamente. Non limitarsi a confermare se stessi, come principio dinamico (biologico) e come apertura, vale nell'etica, vale nelle relazioni umane e politiche, vale nella conoscenza e nella ricerca scientifica. Vale anche per l'impresa e la sua competitività.

Beppe Sebaste


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