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Fuga dall'Università, ovvero quando i dati dovrebbero far riflettere

di Domenico Delle Side

23/04/2015
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ROARS

Poco più di due anni fa, nella sua dichiarazione “Le emergenze del sistema” il CUN osservava  che il numero degli immatricolati nelle università italiane aveva subito un calo di circa 58.000 unità, non troppo distante dal numero di iscritti presso un grosso ateneo come l’Università Statale di Milano. A distanza di due anni, gli immatricolati sono diminuiti ulteriormente di circa 10.000 unità nel 2012/2013, per riconfermarsi attorno a 270.000 nel 2013/2014. Se disaggreghiamo i dati dell’ultimo decennio su base geografica, il numero di immatricolati nel Centro-Sud ha subito una riduzione del 25.9 e del 29.9%. Un dato che non sorprende, se teniamo conto che Nord e Centro hanno mediamente erogato borse verso il 90% degli idonei, menttre al Sud questa percentuale scende sotto il 60%).

Poco più di due anni fa, nella sua dichiarazione “Le emergenze del sistema” [1], il CUN dava una rappresentazione preoccupante della realtà dell’università italiana degli ultimi anni. Le analisi risultavano per certi versi sconcertanti, specie per chi si era interessato solo marginalmente alle questioni di questa area della società italiana. Di contro, per molti tra gli addetti ai lavori, la stessa rappresentazione costituiva esclusivamente la logica conseguenza di scelte politiche che hanno progressivamente minato il sistema dell’istruzione in generale e quello dell’università in particolare.

Nello specifico, la dichiarazione affrontava il tema dell’andamento temporale del numero degli immatricolati nelle università italiane, osservando che nel giro di otto anni si è avuto un calo di circa 58.000 unità su base nazionale. Il dato era e continua ad essere preoccupante, poiché non è troppo distante dal numero di iscritti presso un grosso ateneo come l’Università Statale di Milano.

A distanza di due anni, è interessante vedere se l’andamento illustrato dal CUN sia continuato, arricchendo le analisi per capire quali possano essere i problemi su cui intervenire. Per raggiungere lo scopo preposto, è possibile far uso in prima istanza dei dati messi a disposizione dall’Anagrafe Nazionale degli Studenti del MIUR [2]. Tali dati sono stati estratti attraverso l’interfaccia di interrogazione e successivamente processati.

Per ciò che concerne l’andamento degli immatricolati, si assiste ad una diminuzione pressoché lineare tra gli anni accademici tra il 2003/2004 ed il 2013/2014 (Figura 1A). Rispetto all’analisi del CUN, che si fermava al 2011/2012, gli immatricolati sono diminuiti di circa 10.000 unità nel 2012/2013, per riconfermarsi attorno a 270.000 nel 2013/2014. La variazione netta dal 2003/2004 è pari a circa -70.000 immatricolati. In termini di atenei scomparsi, rimanendo su Milano, è come se sparissero in un solo colpo Il Politecnico e la Bicocca.

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Figura 1. A) Numero totale degli immatricolati presso università italiane per anno accademico. B) I dati del grafico in A disaggregati per area geografica. C) Immatricolati in un ateneo di una determinata area geografica, residenti nella medesima area. D) Immatricolati in un ateneo di una determinata area geografica, provenienti da un’altra area.

L’arresto dell’emorragia di nuovi immatricolati nel 2013/2014 fa ben sperare, ma di certo il segnale è ancora troppo timido per ritenere che la situazione sia radicalmente cambiata. Questa osservazione appare ancor più vera disaggregando il dato di Figura 1A nelle tre aree geografiche in cui viene comunemente divisa la penisola italiana: Nord, Centro e Sud (con isole). Tale esercizio è mostrato in Figura 1B. Qui è possibile notare come, dopo un iniziale decremento tra il 2003/2004 ed il 2006/2007, il numero di immatricolati per anno accademico è rimasto praticamente costante per gli atenei del Nord Italia. Diversa, invece, è la situazione per Centro e Sud. Queste zone infatti sono state interessate da una diminuzione consistente del numero di immatricolati. In particolare, per il Centro si è passati da 84.814 a 62.820 immatricolati, mentre per il Sud da 119.434 a 83.609, corrispondenti rispettivamente ad una riduzione del 25.9 e del 29.9 %.

I dati fin qui utilizzati si prestano agevolmente ad un ulteriore disaggregazione; è possibile infatti vedere quanti studenti residenti in una determinata area si immatricolino nella stessa area. Ottenuti tali dati, è possibile stimare per differenza l’attrattività degli atenei di un’area verso gli studenti che risiedono altrove (incluso l’estero). Questa analisi è mostrata nelle Figure 1C-1D. Le elaborazioni di Figura 1C mostrano che la situazione del Nord è qualitativamente simile a quanto visto nel quadro precedente, sebbene in questo caso i dati illustrino una leggera flessione nel numero di residenti che si immatricolano presso gli atenei della stessa area. Tale flessione è tuttavia compensata dagli ingressi esterni (Figura 1 D), che dal 2003/2004 al 2013/2014 sono nel complesso cresciuti, passando da circa 15.000 a 17.500. Anche in questo caso, la situazione di Centro e Sud è sostanzialmente differente. La diminuzione di iscritti “autoctoni” in entrambe le aree è lievemente più grande che nel caso di figura 1B, ma nel complesso simile (rispettivamente 27.4 e 30.1 %). Gli ingressi esterni per il centro sono diminuiti, anche se con un comportamento piuttosto irregolare. Il fenomeno degli ingressi esterni risulta, invece, piuttosto limitato per gli atenei del Sud. In media, il numero di residenti in altra area che si immatricola in atenei del Sud rappresenta circa il 3.5 % del totale delle immatricolazioni nella stessa area, contro il 12.5 ed il 25.1 % di Nord e Centro.

Il comportamento delle singole regioni è ancora più rappresentativo della dinamica del fenomeno delle immatricolazioni. Questa analisi è riportata nelle Figure 2A-C. La Figura 2A mostra che le immatricolazioni nelle regioni del Nord Italia sono rimaste sostanzialmente stabili tra gli anni accademici 2003/2004 e 2013/2014. L’unica evidente eccezione è l’Emilia-Romagna, che nello stesso periodo è passata da circa 30.000 immatricolati a poco meno di 25.000. Nel Centro Italia (Figura 2B) il trend di decrescita è più o meno marcato, con diminuzioni consistenti per Lazio e Toscana. Il Sud Italia (Figura 2C), invece, presenta un generalizzato andamento decrescente per tutte le regioni. Impressionante è il risultato della Sicilia, che nel periodo in esame è passata da 28.706 a 17.435 immatricolati.

La realtà fotografata dai dati estratti dall’Anagrafe del MIUR è preoccupante. In generale, se ne delinea un paese che sta pian piano tirando i remi in barca quanto all’istruzione superiore: sempre meno giovani decidono di continuare i propri studi dopo il diploma, contribuendo a far ottenere alla nazione tristi risultati tra i paesi OECD [3]. Nello specifico, invece, l’analisi mostra un paese a tre velocità. Un Nord che sta accusando il colpo, ma nel complesso riesce a reagire a questa situazione. Un centro in crisi di immatricolazioni, ma che si mostra comunque fortemente attrattivo nei confronti delle altre aree. Un Sud in profonda crisi, con un generale calo di immatricolazioni in tutte le regioni che lo compongono.

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Figura 2. Immatricolati per anno accademico nelle regioni italiane. A) Regioni del Nord. B) Regioni del Centro. C) Regioni del Sud.

Quali possono essere le cause di questa situazione? Si potrebbe essere tentati dal dire che la colpa sia del periodo di crisi economica che ha investito l’Italia [4]. Il calo delle immatricolazioni, tuttavia, è precedente allo scoppio della crisi. Ciò rende debole l’idea di un nesso causale tra i due eventi. E’ tuttavia ragionevole ritenere che la crisi economica abbia contribuito ad aggravare la situazione.

In realtà, capire il perché del fenomeno è un’operazione piuttosto complessa e probabilmente non riconducibile ad una singola causa, ma piuttosto ad un insieme di fattori che hanno determinato il progressivo allontanamento della formazione universitaria dai percorsi di vita di migliaia di ragazzi italiani. In questo contesto, è possibile che alcuni sgradevoli comportamenti assunti all’interno delle università, insieme con alcune pratiche talvolta poco trasparenti, abbiano giocato un ruolo demotivante. Se a questo si aggiunge un’attenzione a volte morbosa da parte della stampa nazionale [5] (non sono, ad esempio, mancate le campagne stampa che suggerivano una supposta inutilità della laurea per trovare un lavoro[6]), il quadro che ne risulta è piuttosto fosco.

Nel tessuto sociale italiano, questi eventi sedimentano ed assumono un grado di tangibilità molto più alto della realtà dei fatti. Il nostro è infatti un paese in cui l’analfabetismo funzionale è dilagante [7-9]: in altre parole, una grossa fetta della popolazione tra 16 e 65 anni (pari al 47 % secondo l’UNDP [7]) ha un livello di abilità nel leggere, scrivere e far di conto che non permette di affrontare proficuamente la vita di ogni giorno o i lavori in cui sono richieste abilità superiori a quelle elementari. Gli analfabeti funzionali, ad esempio, hanno difficoltà a comprendere un testo o compilare un modulo di richiesta di un qualsiasi certificato, non riescono ad informarsi, non riconoscono i segnali stradali e non sono in grado di usare computer, tablet o smartphone.

L’andamento osservato nelle immatricolazioni, pertanto, appare in prima approssimazione consistente con questa situazione. Una nutrita percentuale di italiani ha difficoltà oggettive a comprendere il mondo che le è intorno. Così, i luoghi comuni circa l’università prendono il sopravvento e quasi si sviluppa un odio viscerale verso scienza e cultura, tanto da far sorgere casi come “Stamina”. Pensare che in un tale clima queste persone possano rendersi conto dell’importanza di un adeguato livello di istruzione è pura utopia.

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Figura 3. Il diritto allo studio in Italia. A) Studenti idonei e destinatari di borsa di studio. B) Rapporto (%) tra borsisti e idonei. C) Iscritti totali presso gli atenei. D) Rapporto (%) tra borsisti e iscritti. (Fonti: Osservatorio Regionale per l’Università e per il Diritto allo Studio Universitario della Regione Piemonte e Anagrafe MIUR).

Questa situazione culturale è inoltre aggravata dalla penuria di fondi per il diritto allo studio, specie al Sud. La Figura 3A mostra l’incredibile differenza che corre tra l’essere idoneo a fruire di un supporto per esercitare il proprio diritto allo studio universitario e l’esserne effettivamente destinatario. Sebbene la realtà di Nord e Centro sia peggiorata a partire dall’anno accademico 2009/2010, il Sud evidenzia un netto divario tra queste due categorie di studenti. Se nel periodo analizzato, Nord e Centro hanno mediamente erogato borse verso il 90% degli idonei, al Sud questa percentuale scende sotto il 60% (Figura 3B). Inoltre, tra il 2003/2004 ed il 2013/2014 c’è stato un generale incremento del numero totale di iscritti (Figura 3C), ciò ha fatto sì che la percentuale di borsisti rispetto agli iscritti sia crollata nel corso degli anni (Figura 3D). Questi dati rendono in parte conto della forte attrattività di Nord e Centro, contro le limitate performance del Sud. E’, infatti, molto più probabile prendere una borsa di studio frequentando un’università del Centro o del Nord, piuttosto che una del Sud. Allo stesso tempo, Centro e Nord offrono un tessuto socio-economico più predisposto ad assorbire laureati rispetto al Sud. Anche questo dato contribuisce alla bassa attrattività di questa area.

La situazione fin qui descritta è tutt’altro che rosea e le scelte di politica universitaria effettuate nel recente passato non fanno che presagire un ulteriore peggioramento per il futuro. Come interpretare, infatti, la retorica del merito se non come uno strumento per dare il colpo di grazia a quegli atenei che, tra immatricolazioni in calo, organici ridotti e budget sempre più tagliati, sono già oggi in difficoltà? Se in linea di principio si può certamente essere d’accordo sul principio “chi sbaglia, paga”, tuttavia nel caso delle università si cerca di far pagare alla collettività gli errori di una ristretta cerchia di persone. La “quota premiale” del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), ad esempio, dovrebbe servire a premiare gli atenei più virtuosi. Qui sorge il paradosso. Infatti, se di premio deve trattarsi, la logica vorrebbe che fosse qualcosa che si aggiunge all’ordinario. Nella retorica del merito, invece, questo punto di vista si inverte ed il premio viene erogato a saldo zero per le casse statali, ovvero con risorse sottratte agli altri atenei dal normale FFO. Quindi, se da un lato alcuni atenei vengono premiati, dall’altro molti vengono pesantemente puniti e la punizione, più che essere riservata ai responsabili di eventuali azioni sconsiderate, viene diretta contro gli studenti e le popolazioni delle aree degli atenei colpiti, entrambi del tutto incolpevoli. E’ merito questo?

Per evitare, quindi, che il divario tra gli atenei aumenti a causa di scelte avventate nei criteri di spartizione del FFO, è necessario provvedere a rifinanziare la quota premiale del fondo, in maniera tale che sia realmente un premio e non soffochi gli altri atenei. Diversamente assisteremo in un futuro non troppo remoto a situazioni tragiche, in cui non solo alcuni atenei registreranno un ulteriore crollo nelle immatricolazioni senza poter sperare di accedere ad alcun fondo premiale, ma vedranno anche a rischio la propria sopravvivenza. Allo stesso tempo è necessario introdurre pratiche di responsabilità, in maniera tale da sfavorire comportamenti disfunzionali al bene della collettività. In questo modo, il gap tra le aree del paese potrebbe riequilibrarsi verso dimensioni più ragionevoli e rientrare nel limite del fisiologico.

Sul fronte più generale del calo delle immatricolazioni, invece, è necessario che la politica si occupi dell’istruzione con provvedimenti di lungo periodo. L’istruzione e le competenze medie degli italiani devono aumentare, con lo scopo di avere cittadini più consci della realtà che li circonda, cittadini in grado di comprendere il valore dell’istruzione. Questo approccio avrebbe anche il positivo effetto di ridurre la spesa sanitaria. E’ infatti noto che persone più istruite adottano stili di vita più sani, con conseguenti risparmi per il servizio sanitario nazionale [10].

Gli interventi suggeriti porterebbero benefici in vari ambiti in cui la nazione è in affanno. Sarebbe decisamente il caso che la politica nazionale iniziasse a prenderli in considerazione. Una celebre frase di Derek Boek diceva che “se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza”. Purtroppo è da diversi anni che stiamo provando questa ignoranza ed è giunto il momento improcrastinabile in cui rifinanziare e ripartire con l’istruzione.

  1. https://www.cun.it/uploads/4492/dichiarazione_cun_su_emergenze_sistema.pdf
  2. https://anagrafe.miur.it
  3. https://www.oecd.org/education/eag.htm
  4. https://www.lavoce.info/archives/33494/meno-iscrizioni-alluniversita-per-colpa-crisi/
  5. https://www.roars.it/online/universita-e-stampa-un-difficile-rapporto/
  6. https://www.roars.it/online/w-lignioranza-breve-antologia-dei-maitre-a-penser-de-noantri/
  7. https://hdr.undp.org/sites/default/files/reports/269/hdr_2009_en_complete.pdf
  8. https://www.statcan.gc.ca/pub/89-604-x/89-604-x2011001-eng.pdf
  9. https://skills.oecd.org/skillsoutlook.html
  10. https://www.nber.org/papers/w12352

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