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Formazione, un passo indietro

La delega al governo a riformare i canali di accesso alla professione suscita perplessità. Si rischia di avere prof preparati nelle materie ma inadatti

26/05/2015
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ItaliaOggi

di Andrea Gavosto* 

Uno degli aspetti più importanti, ma meno discussi, della riforma della Buona scuola riguarda la formazione iniziale dei futuri insegnanti. La versione del disegno di legge approvata dalla camera conferisce infatti una delega al governo per cambiare sostanzialmente il percorso di ingresso dei docenti alla professione, stabilendo precisi paletti. Se sarà confermato dal Senato, il nuovo regime presenta una serie di controindicazioni che potrebbero far ritornare la scuola a un mondo - quello del «chi sa le cose, le sa anche insegnare» - che credevamo superato.

Attualmente, la legge del 2010 (dm 249) prevede che, per diventare docente nella scuola secondaria (per la primaria occorre la laurea abilitante a ciclo unico e a numero chiuso in scienze della formazione primaria), dopo la laurea triennale nella disciplina di elezione (lettere, matematica, ecc.) si frequenti un corso di laurea magistrale a numero programmato. Il corso è focalizzato all'acquisizione di specifiche competenze didattiche, incluse quelle digitali, quelle per favorire l'inclusione dei Bes, la lingua inglese, con periodi di tirocinio nelle scuole già durante l'università. A questo segue un anno di tirocinio formativo attivo (Tfa), in cui i futuri docenti mettono in pratica le loro conoscenze teoriche. Al termine del percorso, un esame conferisce l'abilitazione all'insegnamento; per entrare in cattedra occorre però superare ancora il concorso.

Sulla carta il sistema cerca di combinare una formazione all'insegnamento basata sia su conoscenze disciplinari sia su competenze didattiche, con un'alternanza di momenti teorici e pratici in tutto il percorso. Questo modello, peraltro, era stato a suo tempo criticato per essere ancora troppo «disciplinarista» e, in ogni caso, non è mai stato veramente messo alla prova. Per ora, infatti, l'unica parte attivata è quella del Tfa, preceduto da un test di ammissione: le università non hanno ancora avviato le lauree magistrali, non avendo certezza sulle future possibilità di ingresso di laureati nel mondo della scuola (a maggior ragione oggi, dopo la maxi-assunzione dei 100.000 precari).

La delega al governo modifica radicalmente questo percorso. I futuri insegnanti dovrebbero ottenere sia la laurea triennale sia quella magistrale in una disciplina specifica, dopo aver accumulato un numero esiguo di crediti in pedagogia e didattica. Dopo i cinque anni di studio, affronterebbero un concorso basato, presumibilmente, su quanto hanno imparato all'università e quindi nozioni disciplinari. Solo dopo esser stati assunti con un contratto triennale di apprendistato, i nuovi docenti assaggerebbero le gioie della vita quotidiana in classe, attraverso un tirocinio nelle scuole. L'assunzione a tempo indeterminato arriverebbe al termine della positiva conclusione di questi tre anni, ma per il momento non è chiaro come e da chi verrebbe formulato il giudizio finale sulle capacità del nuovo docente.

È evidente il rischio che così si selezionino ottimi esperti di letteratura, scienze, lingue, ecc., che però - finché non avranno messo piede in classe, cioè, presumibilmente troppo tardi - sono privi di una vera formazione didattica e perciò non hanno idea di che cosa hanno bisogno gli studenti, di come si gestisce una classe, di come si collabora con i colleghi, di come si sviluppano le competenze dei ragazzi, né hanno avuto modo di capire a tempo debito se l'insegnamento è la professione giusta per loro. Aspettiamo di saperne di più, ma così come appare dall'art. 23 del ddl, sembra il ritorno a un'idea di insegnamento di gentiliana memoria. Non a caso, il modello proposto dal Parlamento è molto distante da quello prevalente nei paesi europei più avanzati, dove la formazione didattica – con momenti di esperienza pratica - avviene in parallelo con quella disciplinare, non dopo.

Ad esempio, in Germania, chi vuole diventare insegnante di chimica sceglie a 18 anni un percorso universitario di didattica della chimica (diverso da quello di chi vuole fare il chimico), composto da una laurea triennale in formazione e una magistrale in chimica, rafforzato con insegnamenti pedagogici e di metodo didattico. Soprattutto, prima di superare ben due esami di Stato per l'insegnamento, deve aver maturato circa tre anni di esperienza professionale in scuole diverse. La differenza è evidente. In un caso, la cura è quella di formare veri professionisti dell'insegnamento. Nell'altro, si rischia di mandare in cattedra laureati, magari molto preparati nella loro disciplina (condizione comunque necessaria), ma inadatti all'insegnamento.

* direttore della Fondazione Agnelli


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