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Formazione obbligatoria? Si fa presto a dirlo

di Antonio Valentino

27/08/2014
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ScuolaOggi

Se ne parla un po' da sempre. Il tema della obbligatorietà  della formazione dei docenti si è riproposto con un qualche clamore  con il precedente ministro (Maria Chiara Carrozza); ma  non se n'è fatto niente per le ragioni che sappiamo. Ne ha riparlato con insistenza alcune settimane fa il sottosegretario Reggi nelle sue  interviste.

Proviamo allora a riprendere il discorso e a fissarne i punti – raggruppati per vicinanza tematica -  che, seppure in misura diversa,  più appartengono al sentire comune. Almeno si pensa.

Sull’obbligatorietà

  1. La formazione oggi è un diritto dovere, che si rivendica come diritto (quelli che lo fanno), ma non si sente (non si vive) come dovere. Le ambiguità al riguardo sono una delle ragioni del modesto livello di professionalità di buona parte del personale delle nostre scuole; e quindi dei risultati - non proprio brillanti nelle rilevazioni nazionali e internazionali – e della percezione diffusa della inadeguatezza del nostro sistema di istruzione.
  2. L’obbligatorietà della formazione è difficilmente contestabile. A condizione però che se ne  chiariscono le condizioni di contorno e delle relazioni con altre nozioni chiave delle professionalità che operano nella scuola (e soprattutto dei docenti e dei DS).
  3. L’interrogativo di partenza è: perché l'aggiornamento e la formazione non hanno quasi mai  funzionato e non funzionano.

Una politica fallimentare. Cos’è mancato

La risposta che qui si dà è che, un po’ da sempre, sono  mancate (ma più nella gestione concreta che nelle direttive ministeriali):

a. una “visione” della formazione legata a profili e prestazioni coerenti con la “missione” della scuola e, quindi, 

b. politiche di investimento e conseguenti scelte  sulle condizioni di contorno: (figure, spazi, ruoli e modalità) e politiche incentivanti che favorissero professionalità esperte e collaborative (per esempio, le politiche riguardanti la progressione di carriera, ripensata in questa direzione),

c. una formazione iniziale solida e non accademica.

  1. È diffusa ancora nel personale un’idea della formazione come imposizione quasi offensiva (come di “lesa maestà”) della dignità e dell’autonomia professionale (del docente soprattutto) e  come pratica sostanzialmente inutile e “burocratica” (talvolta, sul punto, con qualche ragione).

È una ovvietà, ma va ridetta, quella  per cui andrebbe preliminarmente recuperata, a tutti i livelli (individuale, di scuola, di sistema) la consapevolezza che la formazione è, soprattutto oggi,  risposta - necessaria ed urgente -  ai nuovi bisogni formativi dei nostri studenti  e alla domanda di aggiornamento, ripensamento e senso dei saperi “scolastici” che la rivoluzione scientifica e telematica di questi ultimi decenni ha riportato in primo piano.

Si ha, a volte, invece la percezionesoprattutto a motivo di politiche del personale sostanzialmente miopi, che manchi proprio, nei più, la consapevolezza che attrezzarsi rispetto ai nuovi compiti - aggiornarsi e adeguare la propria professionalità - è un must non più rinviabile.

Il passaggio dalla incompetenza in-consapevole alla consapevolezza della propria inadeguatezza (“sapere di non sapere”, a voler scomodare Socrate) va considerato quindi (per una buona fetta di personale) la condizione prima – e tale dovrebbe essere considerata dall’Amministrazione e dagli Istituti scolastici - perché si attivino processi che puntino a  competenze consapevoli e progressivamente adeguate[1].

A proposito di “visione”

  1. Una formazione professionale idonea va considerata come il risultato, sempre provvisorio, di una ricerca-azione continua sui contenuti e modi di esercitare le proprie attività professionali. Come risultato, detto in altri termini, di riflessione continua sulle esperienze professionali in itinere e compiute - proprie, ma anche di altri -  a cui seguano aggiustamenti,  cambiamenti di rotta, precisazioni, arricchimenti. Riflessione che è potenzialmente più ricca – questo almeno le ricerche sembrano confermare - se comunicata / partecipata all'interno di un confronto tra pari. (Ovviamente le esperienze professionali di cui qui si parla sono cosa altra dai vissuti personali. Ma su questo, valgono le considerazioni e le indicazioni metodologiche di Luigina Mortari, a cui si rimanda[2]).
  2. Una moderma cultura professionale poggia oggi – come è noto - sulla considerazione che non c’è una “via maestra” alla formazione e che i suoi  spazi e i suoi strumenti sono molti e molto vari. Non c'è solo il classico percorso formativo che tutti sappiamo e che il più delle volte riproduce le modalità didattiche della lezione della nostra tradizione scolastica. Conferenze, convegni, incontri informali, le normali attività professionali proprie e altrui e ovviamente quelle fuori dall'ordinario, letture "professionali" e non, tecnologie informatiche …: molti spazi e occasioni possono essere strumenti e luoghi di formazione. Occorre solo esserne consapevoli e "attrezzarsi". Perché, su queste cose, sappiamo che non si improvvisa.

Comunque va condivisa e diffusa l’idea che lo sviluppo professionale è sempre risultato dellintreccio di formazione - più o meno guidata e più o meno strutturata - e di autoformazione (individuale o in gruppi ristretti).

  1. Sulle tecnologie informatiche e telematiche:  va certamente condivisa la loro importanza come strumento fondamentale di formazione- autoformazione (nel recente concorso a dirigente, le communities che si sono costituite in rete - e che hanno funzionato, ai fini della preparazione, come veri e propri spazi di “mutuo soccorso” per la soluzione di problemi comuni, di socializzazione di esperienze, di rinforzo psicolofico - sono state potenti fattori di sviluppo professionale) e vanno particolarmente apprezzate e favorite tutte le forme di collegamenti tra pari su compiti comuni e strategie di confronto- collaborazione attraverso piattaforme telematiche. Va però altresì sottolineato che  - molteplici esperienze ormai lo dimostrano- senza confronti in presenza, contatti fisici e spazi non virtuali, le esperienze di formazione-autoformazione risultano molto spesso più povere e meno funzionali.
  2. Tale cultura (idea, visione da promuovere) della formazione,   perchè produca comportamenti e competenze opportune,  necessita, come è evidente, di opportune  misure e dispositivi e di adeguate risorse. Che concretamente significano non tanto direttive, quanto piuttosto: formatori professionali, spazi, incentivi, strumenti , e anche – e in misura non secondaria - assetti organizzativi opportuni.
  3. Certamente c'è un ruolo principe, che spetta al Ministero, di governo complessivo del sistema (e delle sue articolazioni regionali) nel definire priorità tematiche, misure (l'adeguatezza dei formatori in primo luogo)  e responsabilità rispetto alle azioni, alla loro efficacia e al loro coinvolgimento generalizzato.

Su condizioni e attori

Ma c'è un ruolo non meno importante delle scuole - da sole o associate - che passa soprattutto attraverso assetti organizzativi che tendano a privilegiare, ad esempio,  la trasformazione delle varie articolazioni del collegio (dipartimenti, consigli di classe, gruppi di progetto .....) in comunità di apprendimento cooperativo, oltre che di progettazione curricolare. E quindi attraverso una visione di sè - della scuola (e delle sue articolazioni) - come organizzazione che apprende (si forma, si attrezza, progredisce) attraverso quello che fa e la riflessione su come lo fa e sui  cambiamenti che produce;   sugli aggiustamenti che si richiedono;   su come realizzarli.

  1. Rientra ovviamente tra le condizioni di una formazione sensata una attenta individuazione di temi comuni (competenze generali) – per la figura docente e per quella di dirigente-, coerenti con i tratti dei profili professionali che si intendono privilegiare e innovare. Ma sull’argomento, la letteratura è ricca. Il vero problema, come sempre (o quasi) è la “visione”.
  2. Si è accennato al punto tre, a proposito delle  politiche di investimento e di incentivazione / promozione, alla progressione di carriera.  Da più parti si è detto e scritto che suoi strumenti potrebbero ben essere la costituzione di un sistema di crediti – tra i quali far rientrare le esperienze di formazione e delle loro ricadute. Tali   crediti, assieme alle esperienze realizzate nell'ambito della propria funzione e coerenti, lato sensu,  anche al proprio ruolo, potrebbero rientrare in un apposito portfolio,  da predisporre secondo un format unico a livello nazionale (potrebbero farsene carico l’INVALSI e altre strutture / agenzie competenti[3]).

Conclusioni. Puntare sulle sperimentazioni?

Si ripropone, a questo punto, qualora si condividesse anche solo qualcuno dei ragionamenti fatti, il discorso dei necessari investimenti e di  interventi riformatori coerenti.

Di qui non si esce.

I tempi sono quelli che sono e le difficoltà economiche del nostro Paese sempre più stringenti.

Le misure governative che hanno fatto rientrare il pensionamento atteso da tanti insegnanti - e che sembrava cosa fatta - non giocano certo a favore. Qualunque cosa si pensi in proposito.

Non so se la “rimodulazione” di cui parla il sottosegretario Reggi, possa rappresentare, su questo terreno, una risposta sufficiente. A me sembra di  no.

Probabilmente lanciare sperimentazioni (ovviamente circoscritte nei contenuti e nelle attese, essendo l’argomento di quelli, come si è visto, che ha a che fare con aspetti di natura ordinamentale), può essere, in questo momento, la strategia più sensata per una Amministrazione che voglia almeno lanciare messaggi di contrasto all’attuale situazione che è insieme di palude e di attesa e darsi strumenti operativi per interventi generalizzati in stagioni meno segnate da difficoltà economiche

Nella consapevolezza però che anche le sperimentazioni hanno un costo – anche se relativo - e sono credibili se poggiano su progetti condivisi  e tendono a valorizzare la disponibilità e le competenze delle scuole  che ci stanno.

Rispetto ai temi delle sperimentazioni sul terreno della formazione, richiamo soltanto che rilevanza centrale dovrebbe avere soprattutto quello della scuola come rete di comunità di pratiche e di apprendimento attraverso strategie di Cooperative Learning. Si tratta – come è risaputo da molti, ormai - di ipotesi di lavoro tra le più accreditate e sperimentate, con buoni esiti, a livello internazionale (e anche da noi).

Può certamente  spaventare, considerata la distanza quasi siderale tra le pratiche più diffuse al riguardo nel nostro pianeta scuola e i modelli organizzativi e didattici qui richiamati.

Ma nell'era delle rivoluzioni tecnologiche, i percorsi formativi possono essere fortemente facilitati.  A voler pensare positivo.

 

[1] V. Michael Shartz,  La Leadership diffusa per potenziare la figura dell’insegnante, in Atti Convegno-seminario “Collaborative Learning”, Massa Carrara, 17-18 febbraio 2003, pp. 23-24. L’Autore (professore all’Università di Vienna), sostiene, sulla base delle sue ricerche, che “si debba iniziare dalla incompetenza non-consapevole per giungere alla prima tappa costituita dalla incompetenza consapevole, per finire [dopo aver  maturato adeguatete certezze circa la padronanza di sapere e abilità, oggetto della formazione – terza tappa -] con la competenza divenuta inconsapevole (perché automatica)”. (Ciclo di Shartz)

[2] L. Mortari, Apprendere dall’esperienza, Il pensare riflessivo nella formazione, Carocci editore, 2011.

[3] V. al riguardo la proposta in Progressione di carriera: si fa presto a dire, in www.scuolaoggi.com (giugno 2014)


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