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Europa-''Via la legge 30. E sanità e scuola siano pubbliche''

articolo apparso su Europa del 6-10-2004 ''Via la legge 30. E sanità e scuola siano pubbliche'' IDEE PER IL PROGRAMMA DEL CENTROSINISTRA Intervista al sociologo Luciano Gallino, professore emerito...

08/10/2004
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articolo apparso su Europa del 6-10-2004
''Via la legge 30. E sanità e scuola siano pubbliche''
IDEE PER IL PROGRAMMA DEL CENTROSINISTRA Intervista al sociologo Luciano Gallino, professore emerito dell'Università di Torino

La cosiddetta legge Biagi e soprattutto il decreto attuativo hanno moltiplicato le forme di lavoro atipico favorendo la precarietà e l'individualizzazione del rapporto di lavoro che colpisce la funzione del sindacato. Anche per le aziende il numero eccessivo di tipologie lavorative sta diventando ingestibile. Il pacchetto Treu aveva introdotto molta flessibilità, ma all'interno dei contratti nazionali di categoria. Non è precarizzando il lavoro che si vince la sfida della competitività, come dimostrano i casi di Francia e Germania. Il programma del centrosinistra dovrebbe ri-legittimare l'imposizione fiscale e mettere in campo una vera politica industriale.

"La legge 30 va cassata. Si può salvare qualcosa, ma l'impianto complessivo andrebbe smantellato". Non ha dubbi Luciano Gallino, uno dei maggiori sociologi italiani, autore di numerosissimi libri, studioso attento al rapporto tra globalizzazione, progresso tecnologico e mutamenti delle condizioni e delle forme del lavoro.
Professore, proviamo ad immaginare di elaborare il programma del centrosinistra. Parliamo innanzitutto delle politiche per il lavoro. Lei è stato molto critico con la "'#64258;essibilità" anche quando il governo aveva un altro colore. Ma la richiesta di '#64258;essibilità è sempre molto forte. Perché?
Perché le imprese intendono assicurare '#64258;essibilità alla produzione, alla vendita e alla distribuzione. Esse sono organizzate sul territorio nazionale e mondiale in strutture, in reti in cui ciascuna unità produttiva è collegata a molte altre e diventa estremamente vulnerabile a richieste di aumento o diminuzione della produzione che provengono dal committente sovrastante per scaricarsi ai subappaltanti. A ciascun livello qualcuno può ritrovarsi con qualcun altro che pretende da un giorno all'altro di ridurre i prezzi del 5-10 per cento, o di anticipare le consegne di qualche settimana o qualche mese.
Dunque è il sistema che alimenta la richiesta di '#64258;essibilità.
È così. Un certo numero di lavori '#64258;essibili è necessario per le imprese ed è utile anche alle persone o alle famiglie. Vi sono dei momenti in cui i membri di una famiglia possono avere interesse a lavorare a metà tempo, oppure in cui le imprese hanno necessità di trovare addetti per far fronte a picchi di produzione o esigenze tecniche che non rendono razionale assumere una persona. Il lavoro '#64258;essibile può arrecare alcuni vantaggi ai giovani, che, ad esempio, possono compiere più esperienze lavorative e magari scoprire qual è il lavoro che fa per loro, piuttosto che rendersi conto dieci anni dopo che hanno sbagliato quella scelta importantissima che è la scelta di un lavoro.
Allora cos'è che non va nella '#64258;essibilità? O è la legge 30, cosiddetta legge Biagi, inadeguata?
Mettendo assieme le necessità delle aziende e quelle delle persone, ne deriva che le tipologie di lavoro '#64258;essibile davvero utili sono cinque o sei. La legge 30 secondo il calcolo fatto dall'Istat che ha scavato nei meandri dei numerosissimi articoli ne prevede 48. È una follia. Lo è dal punto di vista delle persone, perché accade che nello stesso ambiente lavorino '#64257;anco a '#64257;anco decine o centinaia di lavoratori che hanno una dozzina o una ventina di contratti differenti. Ma lo è anche dal punto di vista delle imprese. Gestire un'organizzazione del genere diventa un incubo.
E le aziende non si lamentano?
Incominciano a lamentarsi. Si leggono note, a volte veri e propri rapporti, in cui si incomincia a denunciare un eccesso di '#64258;essibilità.
Che altro rimprovera alla legge 30?
La sua '#64257;loso'#64257;a di fondo. Il frazionamento è stato voluto per demolire la funzione del sindacato. La legge 30 e ancor di più il suo decreto attuativo ha sullo sfondo una '#64257;nalità precisa: individualizzare il rapporto di lavoro sottraendolo alle capacità contrattuali dei sindacati. Ma una cosa del genere può essere vantaggiosa per chi cumuli tre condizioni: età inferiore ai 30 anni; competenza molto elevata; accesso a un mercato delle professioni che in quel momento tira. Quando cade una di queste tre condizioni la prima cade automaticamente, le altre no ma sono soggette a deperimento l'individualizzazione del rapporto di lavoro è micidiale, perché il singolo deve contrattare il proprio lavoro con un imprenditore, un'azienda, una grande società dinanzi ai quali conta poco o nulla.
Entriamo nel merito di queste forme di lavoro '#64258;essibile.
La loro moltiplicazione '#64257;nisce per rendere il lavoro precario.
Il lavoro intermittente, o il lavoro in affitto... sono lavori che prevedono comunque dei periodi di non lavoro nei quali il reddito scende a un terzo o meno, '#64257;no a 350 euro. Questo è il limite '#64257;ssato per il lavoro in affitto, per quello intermittente è anche inferiore. Il risultato è che anziché con tredici mensilità il lavoratore si trova con otto o nove. Il che vuol dire un reddito inferiore rispetto alla media del 30-40 per cento, con relative ricadute sulla pensione. Istituti previdenziali come l'Inpdap hanno già calcolato che coloro che hanno incominciato a svolgere lavori '#64258;essibili da un certo numero di anni vanno verso pensioni inferiori al 30 per cento della media. Pensioni di 300- 350 euro invece che di 1000-1200. Ma ci sono altre ragioni ancora più sostanziali per buttare via quasi tutto della legge 30.
Ce le dica.
Sono ragioni di natura che de'#64257;nirei etico-politica. La legge 30 codi'#64257;ca qualcosa che esiste già, ma che fa impressione trovare scolpita in una legge. Codi'#64257;ca lo statuto di lavoro come pura merce, completamente separato dalla persona. Cosa succede, ad esempio, nel lavoro in affitto? Che il lavoratore dipende da un'agenzia di "somministrazione". Il quale lo affitta, lo "somministra", somministra il suo lavoro...
Una forma moderna di caporalato?
Brevettata e strutturata, ma è una forma di caporalato, anche se questo non è un termine che io abbia usato. Il lavoratore presta la sua opera presso un utilizzatore per il quale non è nessuno. È semplicemente un serbatoio, un erogatore di forza-lavoro, una sorta di macchina che viene af- '#64257;ttata. Per settimane, mesi, o anche anni. Può essere addirittura a tempo indeterminato, perché è stata soppressa una legge che vietava l'intermediazione. Eppure essa stabiliva un principio di dignità, riconoscendo al lavoratore il diritto di disporre della propria capacità lavorativa, della propria forza-lavoro. Aggiungo che incomincio a vedere un numero impressionante di giuslavoristi che sulla legge 30 e sul decreto attuativo esprimono pareri estremamente severi da molti punti di vista, ma soprattutto dal punto di vista del vulnus che essa reca a quella faticosa e importante costruzione che è stato il diritto del lavoro nella seconda metà del Novecento.
Con radici che risalgono molto più lontano.
Non salva proprio nulla della legge 30?
Il lavoro a progetto, che è esattamente la vecchia collaborazione coordinata e continuativa un po' riverniciata. Se viene usato per avere lavoratori dipendenti sotto altro nome, si tratta di un abuso, così come anche prima. Certamente salverei il parttime, anch'esso già esistente. Occorrerebbe semmai reintrodurre il lavoro interinale, che esiste in tutta Europa e negli Stati Uniti e che, con opportuni paletti, può essere utile. Il lavoro interinale è quella prestazione individuale per cui se una società, un'impresa ha bisogno di un biologo, o di un analista, o di un esperto di metalli, di un tecnico insomma, chiede la sua prestazione per un tempo circoscritto e limitato.
Dunque lei non è d'accordo neanche con chi dice che alla legge 30 mancano i soldi per gli ammortizzatori sociali.
Il mio giudizio sulla legge 30 è un giudizio di fondo. Il problema delle tutele, tuttavia, esiste e non è piccolo. Perché in ogni caso, se anche le forme di lavoro '#64258;essibile si riducessero a cinque o sei, esse potrebbero riguardare milioni di persone e renderebbero dunque necessarie forme di tutela oggi inesistenti.
Sono impensabili nuovi strumenti di garanzia per i lavoratori? E nuove forme di rappresentanza?
Lo strumento sindacato è stato elaborato e sviluppato nell'arco di un secolo e mezzo o giù di lì. Si può anche provare a inventarne di nuovi, ma per 48 tipi di lavoro atipici... Sarebbe un bel problema. Quanto alle garanzie, certamente alcune andrebbero accresciute, ma anche qui il numero elevatissimo di tipologie di lavoro rende tutto precario e difficile.
Prendiamo la questione della sicurezza. In qualsiasi ambiente, dalle biblioteche alle fabbriche ai cantieri, si tratta di un grosso impegno perché la formazione alla sicurezza richiede investimenti e tempo. Ma quando il 50 per cento e oltre dei lavoratori presenti in una attività produttiva ha contratti della durata massima di qualche mese, perché mai l'azienda dovrebbe essere interessata ad investire in formazione alla sicurezza? E infatti ogni giorno ci scappa il morto. O i morti.
Gli altri paesi come si regolano?
La Francia e la Germania hanno introdotto dosi notevoli di '#64258;essibilità sul lavoro, ma in modo diverso da quello italiano. Hanno esteso quel che era implicito nel pacchetto Treu. L'impresa dice al lavoratore: io ti assicuro l'occupazione e il salario anche in presenza di problemi di produzione e di mercato. Tu però con il tuo monte lavoro annuo (poniamo di 1700 ore, un valore abbastanza comune) lavorerai 35 ore alla settimana o 45- 48, a seconda delle necessità. Esiste anche la '#64258;essibilità nella prestazione.
Il pacchetto Treu andava bene?
In effetti il pacchetto Treu del '97 introduceva molta '#64258;essibilità, ma all'interno dei contratti nazionali di categoria. Esistevano molti dispositivi per rendere il lavoro più '#64258;essibile ma nel quadro di una garanzia dell'occupazione e del salario. Che è quello che viene a cadere con la legge 30. Ma ci sono altri aspetti da considerare.
Quali?
La distribuzione dei redditi sul Pil, innanzitutto. In Italia le retribuzioni hanno perso molti punti in più di quanti non ne abbiano perso in Francia, Gran Bretagna e Germania. In meno di quindici anni le retribuzioni da lavoro dipendente da noi hanno perso più di dieci punti, circa 125 miliardi di euro l'anno. Si parla tanto di post-fordismo, di nuova organizzazione del lavoro eccetera. In realtà di Ford si è mantenuto il peggio, cioè un'organizzazione del lavoro fortemente frammentata, ripetitiva, e non si parla mai della sua innovazione fondamentale, il raddoppio dei salari per rilanciare i consumi.
Nel 1914 Ford decise di pagare ai lavoratori 5 dollari al giorno invece che 3,89 facendoli lavorare otto ore invece che nove.
E la competitività? La concorrenza della Cina e dei paesi emergenti?
I tedeschi hanno un costo del lavoro superiore al nostro del 40 per cento circa e se la passano benissimo, al contrario di quanto si sente dire in alcune dichiarazioni quanto meno improvvisate.
La competitività non si fa solo con le politiche del lavoro.
Si fa innanzitutto con le politiche industriali. Quindici anni fa l'industria automobilistica italiana produceva due milioni e mezzo di veicoli nel mondo, quella tedesca un po' più di tre milioni. Nel 2003 noi abbiamo prodotto due milioni di auto, i tedeschi 12,5, sei volte tanto. Loro non hanno paura dei cinesi! Perché fanno investimenti enormi, dieci volte quelli italiani.
Perché si sono spinti da tempo in settori dalle tecnologie molto innovative. Si sono spinti là dove i cinesi impiegheranno cinque, dieci, quindici anni per arrivare, mentre francesi e tedeschi saranno andati molto più avanti.
Cosa dovrebbe fare un governo di centrosinistra sul fronte industriale?
Selezionare le linee di sviluppo industriale che ri'#64258;ettano le effettive potenzialità del paese. Le imprese italiane sono drammaticamente rimpicciolite nell'arco di 15-20 anni. La politica industriale deve sopperire al declino dei grandi gruppi. Dovrebbe puntare sui distretti industriali introducendo forme di coordinamento, di consorziamento lungo linee di politica industriale fortemente mirate e selettive. Il che non vuol dire scegliere dall'alto, ma mettere insieme imprenditori, ministeri, università, sindacati e individuare quei 15-20 distretti che possono con'#64257;gurarsi come fabbriche distribuite sul territorio. Un discorso del genere deve passare necessariamente attraverso iniziative europee. Mentre negli ultimi anni, grazie al governo che ci ritroviamo, le iniziative europee sono state lasciate da parte per ragioni politiche.
E il Mezzogiorno?
Nel Sud vi sono distretti industriali importanti. Un esempio è quello aeronautico in Campania. La politica dei distretti potrebbe essere molto efficace anche lì. Di sicuro, bisogna uscire dall'idea che si danno incentivi e poi si sta a guardare cosa succede.
Occorre censire quali sono i poli di competenza del Mezzogiorno, quelli che hanno potenzialità di crescita e promuovere quelli. Gli incentivi indifferenziati sono una caratteristica italiana che ci è costata e ci costerà moltissimo. Occorre selezionare, e anche questo non si può farlo dall'alto, ma con le forze in campo.
Quali altri consigli darebbe al centrosinistra per il suo programma? Qualche titolo.
Occorre fare un ragionamento sulla redistribuzione dei redditi.
La produttività aumenta di anno in anno, ma negli ultimi dieci o quindici anni i bene'#64257;ci sono andati per il 95 per cento alle imprese. E poi, nel programma si dovrebbe indicare una ri-legittimazione sia dell'imposta in generale, sia del fatto che certe attività le può fare il pubblico molto meglio del privato: la sanità e l'istruzione. Un paio di anni fa un'indagine dell'Organizzazione mondiale della sanità aveva misurato i costi e i bene'#64257;ci dei vari sistemi sanitari. L'Italia si collocava al secondo posto, dopo la Francia. Cioè noi spendiamo il 7,5-8 per cento del Pil e abbiamo un sistema che copre tutti. Gli americani spendono tra il 15 e il 16 per cento e hanno 45 milioni di persone scoperte.
Insomma, "pubblico è bello".
Se il centrosinistra sapesse usare le statistiche ai '#64257;ni di un discorso politico, queste cose dovrebbe dirle alla "gente", come si usa dire oggi. E lo stesso vale per l'istruzione. È questo che legittima l'imposta, media o un po' più alta che sia. Perché è molto più razionale spendere collettivamente l'8 per cento partendo dalle tasse per avere un sistema sanitario che copra tutti, piuttosto che spendere privatamente il 15 per cento e lasciare il 20-25 per cento della popolazione in condizioni vicine alla disperazione.
Metterebbe la patrimoniale?
La metterei senza parlarne. Perché se se ne parla '#64257;nisce male.
[Mariantonietta Colimberti]


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