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école - Il nodo del biennio. Per un sapere critico e creativo

Materiali preparatori Al seminario di école Il nodo del biennio. Per un sapere critico e creativo(Firenze, sabato 9 settembre 2006

29/08/2006
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MATERIALI PREPARATORI

Al seminario di école Il nodo del biennio. Per un sapere critico e creativo(Firenze, sabato 9 settembre 2006

Schede a cura di PAOLO CHIAPPE

1. Specificità del biennio italiano realmente esistente. La dimensione "biennio" è una eredità storica del sistema di istruzione italiano, a monte ci sono il vecchio ma sempre formalmente vegeto ginnasio superiore e il biennio propedeutico unico dei tecnici pre-guerra con i loro derivati, più o meno trasformati dal contraccolpo della riforma della media unica. Quella del biennio può essere giudicata una dimensione sovrastrutturale, un fenomeno locale per così dire, di tradizione scolastica, anche se questo non vuol dire che sia da rifiutare. La riforma dei cicli berlingueriana, togliendo un anno alla scuola di base, andava "arditamente" ma anche molto "tecnocraticamente" a mettere in discussione questa illusione di naturalità del biennio e di esso rimaneva solo il nome, data la retrocessione nell'età dei ragazzi. Il concetto tipicamente italiano di "biennio " infatti è inscindibile dall'età di riferimento dei suoi destinatari, che deve andare dai quattordici ai sedici anni. Il biennio italiano si rivolge solo a una parte, anche se molto grande, delle generazioni uscite dalle medie, inizia un nuovo ciclo ed è più collegato a ciò che segue che a ciò che precede; la sua funzione prevalente è quella di "fare da filtro" e "scolarizzare". "Fare da filtro", cioè scoraggiare precocemente dalla prosecuzione in ciascun indirizzo di studi i "non adatti" (il che avviene di solito in una sola direzione), e "scolarizzare", come usano dire gli insegnanti, che significa soprattutto abituare a lavorare quotidianamente e sviluppare forme di autocontrollo. La prima funzione era forte nei licei ancora fino a qualche anno fa, la seconda ora domina a tutti i livelli. Gli esiti di questo sforzo di scolarizzazione sono relativi, data la crisi del libro, l'impossibilità di riprodurre una concezione ortodossa dello studio nel generale mutamento degli stili di vita ecc., ma rimane la predominanza di questo sforzo, che ha come tacito presupposto la considerazione che intorno all'età di quattordici anni le capacità di concettualizzare superano una determinata soglia.

In questo senso nella tradizione del biennio non ha tanto importanza ciò che si studia, ma il fatto che si impari il mestiere dello studente.

C'è anche un aspetto contenutistico però del biennio, di cui l'esempio più famoso e più antico è lo studio completo della morfologia delle lingue classiche nel ginnasio: al biennio vengono attribuiti anzi carichi cognitivi crescenti, fino alla pretesa dei programmi Brocca e di varie sperimentazioni pilotate dall'alto negli anni Ottanta di esaurire nel biennio interi campi di formazione generale, umanistica e scientifica: biologia, diritto, fisica, scienze ecc. con un alto grado di appesantimento degli orari e dei carichi di lavoro e noncuranza delle caratteristiche dell'intelligenza delle ragazze e dei ragazzi a quell'età, a cui vengono proposti schemi subuniversitari di corsi istituzionali.

Il biennio d'altra parte è il territorio tipico di un certo (sempre relativo) ritorno all'ordine scolastico tradizionale, con le sue certezze: uso premiale dei voti, lettura integrale dei Promessi sposi, primato delle grammatica.

Il "modello ginnasiale" nella mente degli insegnanti continua a costituire un punto di riferimento, o una tentazione, anche per chi è impegnato sul fronte dei tecnici e dei professionali nella ricerca di una ecologia dell'apprendimento (interessante la "confessione" di Rosalba Conserva a pp. 94 - 95 del libro Insegnare a chi non vuole imparare scritto con Giuseppe Bagni). In questa nostalgia o invidia del ginnasio (più il ginnasio ideale che quello reale, più quello passato che quello di oggi) da parte di chi lavora nel primo o secondo anno dei tecnici e dei professionali (ma perfino di licei di altro tipo) possono entrare elementi disparati, uno dei quali almeno perfettamente condivisibile: il desiderio di fare una scuola con poche materie, e fra loro ben collegate, e di spingere l'apprendimento fino al livello degli automatismi, dell'interiorizzazione.

2. Conservazione e modernizzazione. Il ritorno al modello dell'indirizzo quinquennale: 1980-2006. C'è da tempo ormai quasi immemorabile un generico accordo di principio sulla necessità di allungare l'obbligo scolastico almeno a sedici anni, anche per portarlo sui livelli europei; la divisione più tipica tra sinistra e destra sulla scuola ha riguardato invece la possibilità o meno di far assolvere l'obbligo anche nella formazione professionale. La giusta resistenza sul rifiuto della canalizzazione precoce ha creato a sinistra anche dei tabù, con la conseguente difficoltà di pensare per il biennio una struttura unitaria e di omogeneo valore formativo ma internamente differenziata e adattabile alle differenti esigenze e interessi degli alunni e di pensare un orientamento che non sia finto né un modo per deviare verso settori meno nobili i "non adatti". Più in generale, nonostante il riferimento ormai di prammatica alla "scuola laboratorio", è davvero difficile pensare e costruire nei fatti una scuola meno manualistica e meno trasmissiva. Così anche nel progetto di legge di iniziativa popolare di Retescuole le ore settimanali per il biennio sono ben 36 (aumentabili fino a 40) di cui 30 costituiscono un "curricolo di base" uguale per tutti. Vi si dice, è vero, che le 30 ore di base avranno una forte impostazione laboratoriale, ma sembra posta comunque in primo piano l'esigenza quantitativa (indice di una difficoltà di mettere a fuoco la specificità della formazione scolastica nella formazione generale fornita oggi dal sistema dei media e dei consumi) e l'egualitarismo curricolare, comprensibile come difesa dalla canalizzazione, ma rigido e statico. Soprattutto questa battaglia di principio per l'unitarietà ha vissuto una specie di esistenza parallela rispetto alle mutazioni reali e striscianti subite dalla scuola media superiore nel periodo da cui usciamo e anche oggi la questione reale sul tappeto è un po' oscurata dal dibattito sull'abolizione o emendamento della legge Moratti.

Mentre da un lato, sul versante del dibattito, in molti abbiamo continuato a difendere il feticcio dell'unitarietà assoluta o quasi fino ai sedici anni, nei fatti i buoi sono scappati dalla stalla (ben prima della Moratti), cioè la divisione in indirizzi ha riaffermato la sua logica senza nessuna discussione chiara e in maniera abbastanza radicale. Negli anni Settanta/ Ottanta erano sorte alcune "sperimentazioni strutturali" di un certo successo anche tra gli utenti, innestate su licei scientifici o istituti tecnici, e dove spesso se non altro nel biennio gli alunni di vari indirizzi erano raggruppati per fare insieme le materie dell'area comune, ma a partire dai primi anni Ottanta è stato posto un blocco alle cosiddette sperimentazioni strutturali e si sono mandate avanti le sperimentazioni "pilotate" (Igea, Progetto Cinque, Erica ecc.) tutte caratterizzate dalla quinquennalità verticale, cioè dalla non esistenza di un biennio unico o unitario, anche se con grossi pezzi in parallelo, in buona parte mutuati dai programmi Brocca, e quindi con orari settimanali di 33 - 36 ore e perfetta separazione degli iscritti fin dall'inizio e spesso con separazione degli organici degli insegnanti dentro lo stesso istituto.

La quinquennalità verticale, quindi la scelta dell'indirizzo separato a quattordici anni non solo nei corsi tradizionali, ma ormai anche nelle cosiddette sperimentazioni, è stata una vera e propria rivalsa dello "spirito di indirizzo", avvenuta senza una chiara discussione pubblica (le sperimentazioni pilotate hanno preso il posto della riforma in modo strisciante). Le cause di questa rivalsa dello spirito di indirizzo sono state probabilmente:

- l'intangibilità "sacrale" del ginnasio che ha impedito di pensare il cambiamento del sistema

- le direzioni ministeriali pre-riforma Bassanini che erano articolate per ordini di scuola e indirizzi, quindi ogni direzione pensava a sperimentazioni pilotate solo per il proprio settore

- l'influenza delle micro-lobbies degli insegnanti di materie di indirizzo (materie tecniche o professionali) a cui si rivolgevano gli ispettori ministeriali portatori del "pacchetto" per farlo approvare ai collegi; tali "pacchetti" garantivano infatti ad alcune materie di indirizzo l'ampliamento delle ore cattedra (appesantendo l'orario) e la quasi intangibilità delle sezioni sperimentali nella definizione dell'organico, cosa molto sentita in epoca di iscrizioni calanti

- la propedeutica di indirizzo uguale per tutti i ragazzi della classe e introdotta fin dalla prima offre una certezza di metodo e di contenuto rispetto a una dimensione totalmente nuova mai sperimentata nella realtà e considerata fumosa e velleitaria (la scuola laboratorio, la flessibilità del gruppo classe, le materie opzionali, il curricolo personalizzato)

Le sperimentazioni pilotate allora sono state un ibrido di modernizzazione dei contenuti, predominio della quantità sulla qualità, conservatorismo dei metodi (orario rigido, parcellizzato, lezioni frontali, classe-coorte compatta) e di un po' di piccolo corporativismo, e sono andate avanti in modo automatico fino ad essere, senza verifica, "messe a sistema", confluendo nella scuola dell'autonomia e della dirigenza. È quasi stupefacente l'avvenuta accettazione da parte della massa studentesca di curricoli e orari così farraginosi e pesanti, dove non era/è previsto nessun atto di scelta dell'utente o quasi, a cui si sono poi andate ad aggiungere tutte le varie progettazioni aggiuntive dei POF. All'interno degli istituti stessi poi sono stati per lo più vanificate le proposte di creare aree comuni tra indirizzi "tradizionali" e indirizzi "sperimentali", cioè un biennio unitario o un organico comune non è stato creato nemmeno tra indirizzi estremamente vicini come possono essere il "geometri tradizionale" e il "progetto 5", il liceo socio-psico-pedagogico e il liceo delle scienze sociali.

C'è quindi nelle scuole uscite dalla fase degli anni Novanta un atteggiamento di indifferenza se non di chiusura verso l'idea del biennio unitario, e il governo di centrosinistra proprio su questo aspetto centrale non ha molta possibilità di far ricorso, come da programma elettorale dell'Unione, alla proposte che vengono dalle scuole.

Un ulteriore elemento di complessità o di complicazione rispetto alla possibilità di definire un nuovo biennio unitario ma flessibile e concepito in modo alternativo rispetto alla attuale scuola trasmissiva è l'invenzione statal-regionale del "biennio integrato" e l'avvento del concetto di "poli formativi". L'attenzione "riformista" cioè si è spostata dalla promozione della qualità dell' apprendimento-insegnamento (contenuti relazioni e ambiente) alle promozione di offerte formative intrecciate, consorziabili, integrabili ecc. sul territorio e la libertà di chi apprende diventa la libertà di incontrare queste offerte per farne un assemblaggio. Le sperimentazioni di biennio integrato poi meritano una riflessione attenta anche perché se da un lato rientrano nel confuso business formativo che si è innescato in questa particolare privatizzazione all'italiana del settore pubblico, probabilmente con aspetti di affarismo spicciolo, dall'altro l'uscita dalla classe per andare a vedere e toccare come si produce qualcosa, (se rivolto a tutti e non solo ai soggetti "deboli" !) potrebbe anche introdurre un elemento davvero nuovo nella mentalità e nel ritmo dell'ambiente scuola e piace ai ragazzi.

3. Contenuti, ambiente di apprendimento, motivazione allo studio. Di che cosa hanno bisogno ragazze e ragazzi a quattordici-sedici anni? Senza addentrarci subito in questioni troppo complicate, la prima cosa di cui hanno bisogno i giovani è di non ripetere senza un criterio le cose già fatte e di non fare la storia antica e poi magari fermarsi perché hanno completato l'obbligo. Si ricordi il vero e proprio caos di idee sulla questione dell'insegnamento della storia nei "nuovi" cicli al tempo del ministro De Mauro ? conseguenza dell'errore del suo predecessore di avere ripensato l'architettura del sistema come una scatola vuota.

Da un punto di vista contenutistico, se l'obbligo scolastico termina a sedici anni, la funzione "terminale" della terza media dovrebbe essere spostata avanti di due anni, e lo stesso dovrebbe valere per l'esame, se esame al termine della scuola di base ha da esserci. Nei contenuti del curricolo di base il biennio dovrebbe essere soprattutto terminale; in quelli di orientamento invece soprattutto preparatorio. Questo discorso fatto per amore della logica non ha nessuna base realistica nel contesto attuale, perché implica un ridisegno dell'architettura globale del sistema e il ridisegno è ormai escluso dal fallimento dei due precedenti tentativi, ma soprattutto dal fallimento della riforma dei cicli del vecchio centrosinistra che è stato l'unico tentativo (troppo intriso di disprezzo verso la scuola che c'è davvero) di semplificare la struttura complessiva. Sappiamo di andare verso dei piccoli aggiustamenti, però è bene avere in mente un principio. Tutta la questione dei contenuti è un po' fuori moda ma ingiustamente, anche perché gli insegnanti, se lasciati senza alcune indicazioni chiare, sono fatalmente sopraffatti dalla logica dell'enciclopedismo. Ovviamente questo discorso non vale solo per il biennio.

Premesso che la discussione sul metodo e quella sui contenuti non dovrebbero essere scisse, anche perché contenuti vastissimi impediscono di scegliere il metodo e obbligano al metodo trasmissivo (si veda su questo anche Carlo Fiorentini, "Autonomia e curricolo", su Insegnare 1/2001) vale la pena di prendere in considerazione quanto dice sul metodo per esempio il saggio di Silvano Tagliagambe (un discepolo di Ludovico Geymonat) "Riflessioni per la costruzione di un biennio unitario"
( Tuttoscuola 461, aprile 2006).

In base alle prove OCSE-PISA relative alle competenze chiave dei quindicenni, gli studenti italiani soprattutto del centro-sud risultano carenti per quanto riguarda la capacità di inquadrare correttamente un problema, di comprendere i dati, di individuare le corrette procedure di soluzione, cioè per quanto riguarda la competenze richieste per affrontare una soluzione problematica reale; pedagogicamente, secondo Tagliagambe, questo dovrebbe essere affrontato introducendo un apprendimento basato sui problemi, cioè un approccio detto di impianto costruttivistico, caratterizzato dall'assunto che la formazione sia un'esperienza situata in uno specifico contesto: il soggetto, spinto dai propri interessi, costruisce attivamente una propria concezione della realtà attraverso un processo di integrazione di molteplici prospettive offerte.

Impossibile negare a questa proposta di essere animata da radicalismo pedagogico e antropologico. Per il costruttivismo è significativo l'apprendimento che riesce ad essere attivo, collaborativo, conversazionale, riflessivo, contestualizzato, intenzionale, costruttivo. Il fine non è l'accumulo sistematico di contenuti, ma quello di rendere progressivamente autonomo il soggetto nei suoi atti conoscitivi. Non si tratta di spontaneismo, anzi i materiali di apprendimento devono essere organizzati in modo da consentire questo processo il cui punto centrale è un'attività pratica. Si tratta di uscire dal modello fordista caratterizzato dalla segmentazione in anni, in classi, in discipline giustapposte, per passare a un modello, di impronta fortemente europea, e con un forte riferimento ai compiti della conferenza Stato-regioni, da progettare seriamente, basato su una programmazione per competenze in cui: siano indicati chiaramente e resi trasparenti ex ante gli obiettivi da raggiungere, siano identificati gli indicatori delle competenze da verificare, siano precisati gli standard relativi ai diversi indicatori e ai percorsi e ai livelli di formazione da attivare, siano stabilite le modalità attraverso le quali le diverse competenze possano essere possedute stabilmente e trasferite in contesti e problematiche diverse.

A tal fine la scuola deve cominciare a porsi seriamente la questione finora elusa dell'ambiente di apprendimento. Qui il saggio di Tagliagambe risulta debole perché in sostanza riesce a fare solo l'esempio del computer e di internet da avere sempre a portata di mano mediante il collegamento wi-fi. L'altro punto chiave indicato è quello della programmazione per moduli che abbiano una loro coerenza interna compiuta, ma che siano accostati non per accumulo e assemblaggio ma con una politica sottile di intersezione, di incastro e strategie di interazione complesse.

Queste indicazioni hanno un carattere generale, ma in particolare sul biennio Tagliagambe sottolinea che gli orari italiani sono i più lunghi d'Europa, le materie le più numerose e gli studenti praticano, attraverso l'assenteismo, una sorta di autoriduzione del tempo scuola come forma di difesa. Allora il biennio unitario dovrebbe concentrare in modo massiccio l'attenzione sulle competenze di base e trasversali, adottare le programmazione per competenze e per moduli, curare la dimensione operativa della conoscenza, stimolare la costituzione di un macrosistema formativo che si giovi degli apporti, attraverso le reti, attraverso l'alternanza scuola/ lavoro e gli scambi di esperienze di pratiche, di ambienti e contesti diversi, anche di sistemi esterni a quello di istruzione. In generale si dovrebbe passare da un biennio che fa da semplice interfaccia tra medie inferiori e superiori a un biennio che sia una vera comunità di apprendimento, segnata da una forte motivazione allo scambio di conoscenze.

La proposta costruttivista nella forma presentata da Tagliagambe nell'insieme sembra caratterizzata da una linea di "rottura del paradigma scolastico" (tecnocratica o liberatoria?), unita a una valorizzazione di processi già innescati (l'alternanza scuola/ lavoro) in una ricerca realistica di convergenza tra centralità del soggetto e modernizzazione della struttura.

Se presa alla lettera richiederebbe comunque una mole enorme di lavoro centrale e periferico e comporterebbe notevoli costi e ricadute contrattuali. Un così sottile e complesso cambiamento di paradigma (se non realizzato di nuovo in modo meramente verbale e di facciata) richiede come minimo un significativo ringiovanimento degli attori e quindi una uscita incentivata di migliaia di insegnanti anziani.

Sul piano strettamente teorico è da analizzare con cura il concetto di attività pratica e di attività di soluzione di problemi che dovrebbe costituire il nucleo motore dell'apprendimento secondo tale concezione costruttivista. Il paradigma della "competenza" ? visto soprattutto come avanguardia teorica dell'aziendalizzazione della scuola era stato sottoposto a critica nell'epoca berlingueriana per esempio da Marta Baiardi in un saggio che potrebbe essere utile rileggere ( Per una critica alla proposta del ministero della pubblica istruzione "Riordino dei cicli scolastici", Roma gennaio 1997 ) e che era
animato da
una
appassionata difesa del sapere disinteressato e della valorizzazione della "scuola che c'è". Un'altra critica (trasversale questa tra alcuni conservatori illuminati e progressisti colti) è quella al sistema dei moduli contenuta in un capitolo del noto documento della "Fondazione Nova Spes"
del 2001 (lo potete leggere sul sito di école www.ecolenet.it).

È possibile superare dialetticamente la contrapposizione tra le due anime della pedagogia di sinistra?


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