Dopo settembre un altro fallimento del governo, solo tre regioni riaprono le scuole superiori
E Sedici regioni non riapriranno domani le superiori in presenza al 50% come deciso dall'esecutivo. Continua la protesta dei docenti, studenti e genitori contro la "propaganda" sul rientro a scuola e per le condizioni di sicurezza. Scontro CinqueStelle-Pd. La denuncia della Flc Cgil: "L'istruzione è a pezzi, hanno creato nei fatti l'autonomia differenziata"
Roberto Ciccarelli
Domani in classe al 50% ci saranno gli studenti delle scuole superiori di Toscana, Abruzzo e Valle d’Aosta, ma non quelli della Sicilia, Sardegna, Calabria, Marche, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Basilicata. Sono, al momento, sette le regioni che hanno rinviato la riapertura al primo febbraio. Non è escluso che il governo, dopo il secondo fallimento da settembre 2020, decida di spostare alla stessa data il rientro anche per le regioni che aprono il 18 (Molise, Puglia, Lazio, Liguria, Piemonte), il 25 (Campania, Umbria, Emilia Romagna, Lombardia) e, altre, come la Puglia che aspettano.
Dopo dieci mesi di pandemia , e molti annunci di «ritorni» che non ci sono stati, si è capito che il ministero dell’Istruzione, come la stessa presidenza del Consiglio hanno perso autorevolezza. Nemmeno la corale richiesta di inserire subito la scuola nel piano vaccinale, forse la soluzione allo stallo, ha ricevuto fino ad oggi una risposta fattiva dall’uno o dall’altro. Immobili.
La crisi è esplosa nel consiglio dei ministri del 4 gennaio che ha spostato il rientro dal 7 all’11. Decisione non rispettate da 16 regioni. I rapporti tra alleati sono a pezzi. I Cinque Stelle si lamentano della doppiezza del Pd e dei suoi presidenti di regione. Bonaccini in Emilia Romagna avrebbe prima detto di riaprire l’11 per poi rinviare al 25. Il caso è quello del Lazio guidato dal segretario Pd Zingaretti che ha rinviato, per ora, il rientro al 18. Azzolina ha parlato contro «la politica» e i «partiti» che strumentalizzano gli studenti «sempre ultimi». Zingaretti ha risposto che non c’entrano quando è in ballo la «sicurezza delle persone».
Ciò che non è esplicito in questi scambi sussurrati è la responsabilità del governo. Non ha prodotto dati attendibili che renderebbero più sicuro il ritorno a scuola. Un’assenza riconosciuta da molti nei giorni di dicembre quando, alla vigilia di natale, è stato deciso il rientro del 7 gennaio. Lo stesso è accaduto negli ultimi giorni, mentre si stanno decidendo le nuove regole nel Dpcm del 15 gennaio. Prima di avere deciso il colore delle fasce da assegnare alle regioni si è voluto riaprire le scuole, tra cui quelle superiori alle quali è assegnato un maggiore fattore di rischio. Questa incongruenza rispetto ai criteri scelti dal governo ha spinto le regioni a opporsi alle sue decisioni. È la scuola a fare le spese delle decisioni contraddittorie del governo prima delle feste.
Se in molti escludono il contagio in aula, non è chiaro quale sia l’apporto dell’esterno. Ieri Matteo Orfini (Pd), della commissione istruzione della Camera, ha sollecitato il presidente del Cts Miozzo a fornire «gli strumenti tecnici sui quali costruire le valutazioni politiche». «Mancano dati attendibili. Non lo è il rapporto dell’Iss né quello del Cts».
Sono stati criticati anche i tavoli dei prefetti ai quali sono stati demandati i piani dei trasporti. Quello di Roma e provincia è stato contestato in maniera dura e massiccia da migliaia di docenti, genitori e studenti dei licei della Capitale nel dibattito (vedi qui) che si sta svolgendo su ilmanifesto.it/lettere. Qui ci sono parole chiare contro la «propaganda» del governo sulla riapertura e contro la doppia fascia di entrata (8-10), i sei giorni di scuola imposti dall’alto, senza consultare le scuole e con un unico esito: rendere la didattica ancora più opprimente per gli studenti, capri espiatori di questa situazione.
Il disastro viene da lontano: dal primo lockdown. Solo verso giugno scorso, sulla spinta del movimento «Priorità alla scuola», il governo ha improvvisato soluzioni. Uno degli effetti più inquietanti del caos è l’implosione del sistema pubblico dell’Istruzione. Deriva dalla non volontà del governo di avocare la gestione dell’emergenza permettendo alle regioni di varare ordinanze restrittive. È l’istituzione, nei fatti, di un’«autonomia differenziata» «di cui la scuola à la carte praticata in Puglia è attualmente l’esempio più eclatante. È il pericolo più grave per l’unità del nostro paese» sostiene la Flc Cgil.