Docenti come impiegati silenti nel degrado dell’università
Qualche settimana fa è stato promosso un appello per le lezioni universitarie in presenza: su circa 45.000 docenti in servizio, non più di 4000 hanno condiviso l’appello.
Fabio Minazzi *
Alcuni anni fa, prendendo le mosse dal manifesto L’università che vogliamo, promosso da Piero Bevilaqua e Angelo d’Orsi, sottoscritto da un migliaio di firme, si realizzarono gli “Stati Generali dell’Università alla Sapienza di Roma (marzo 2012). Da quell’incontro nacque la “Carta di Roma per l’università”, pubblicata da vari periodici e testate.
Personalmente aderii all’iniziativa e partecipai agli Stati generali dell’Università, insieme a centinaia di docenti universitari provenienti da mezza Italia. Tuttavia, considerando che nel solo ateneo che ci ospitava lavoravano alcune migliaia di docenti, la latitanza di tanti colleghi si imponeva come dato eclatante. Anche oggi le cose non sono affatto cambiate. Qualche settimana fa è stato promosso un appello per difendere, rispettando le norme di sicurezza, le lezioni universitarie in presenza: su circa 45.000 mila docenti universitari in servizio, non più di 4000 hanno condiviso l’appello.
A parte la libertà di opinione, emerge un tratto caratteristico dell’università italiana: la latitanza della stragrande maggioranza dei docenti rispetto alla vita universitaria quotidiana, evidentemente affaccendati in altro. Il che spiega perché nelle nostre università, nel corso dei decenni, si sia registrata una decadenza complessiva che, spesso e volentieri, fa strage silente del rispetto della legge ed anche della legalità. Questo grave processo di degrado si svolge nella costante “assenza” dei docenti, come se i cambiamenti non li riguardassero affatto, mentre negli atenei la democrazia è cancellata perché tutto è sempre risolto verticisticamente (secondo il centralismo democratico di buona memoria).
Mi limito a pochi esempi. In primo luogo, la sciagurata riforma del 3+2=0 che, complessivamente, ha annichilito il processo formativo, minandolo nelle sue basi storiche ed istituzionali. Questa riforma (un’autentica controriforma!) si è attuata nel silenzio dei docenti che l’hanno subita senza alcuna significativa resistenza (tolti pochi nobili casi che non sono riusciti ad invertire il trend complessivo). Certamente in questo caso la responsabilità primaria ricade sui politici e i ministri dell’istruzione europei che hanno sottoscritto il processo di riforma dei sistemi di istruzione superiori dell’Unione europea. Il paradosso è presto detto: a parole si è esaltata l’autonomia dell’università per far poi piovere dal cielo della burocrazia una riforma calata dall’alto sulla testa di tutti, docenti e studenti, creando l’università dei cicli. Una laurea triennale (con tesine che gridano vendetta al cielo) consente di conseguire il titolo di “dottore” (mentre in Europa è “dottore” solo chi consegue un dottorato di ricerca).
In secondo luogo, la famigerata riforma-Gelmini ha abolito le Facoltà sostituite dai Dipartimenti. Viene voglia di ripetere le parole di Agostino: “Agostino, Agostino che cosa cerchi? Pensi forse di poter mettere tutto il mare nella tua buca?”. Se anche un bimbo sa che non si può mettere il grande (il mare) nel piccolo (una buca), la Gelimini sembrò, invece, ignorarlo, perché travasò la funzione del grande (la Facoltà) nel piccolo (i Dipartimenti), con tutte le conseguenze incongrue che in questi anni si sono puntualmente realizzate.
In terzo luogo, è fiorita l’Anvur che costituisce uno scandalo nello scandalo: pur facendo acqua da ogni dove, le valutazioni di questo costosissimo carrozzone burocratico condizionano negativamente l’intero mondo universitario. In questo caso si sono sollevate molte voci per denunciare lo scempio dell’Anvur, ma molto meno numerose di quanto sarebbe stato auspicabile. In ogni caso, il Ministero ha ignorato tutto, mentre i docenti hanno subito questa nuova imposizione burocratica che ha trasformato il loro stesso lavoro, perché oggi producono “prodotti” che scadono come lo yogurt.
In quarto luogo, le università, grazie all’informatizzazione, si sono profondamente trasformate, molti lavori amministrativi sono scaricati sulle spalle dei docenti, i quali svolgono, sempre più, funzioni impiegatizie, senza minimamente reagire a questo trend con cui si cancellano posti di lavoro, aumentando il loro carico burocratico. Come i medici di famiglia sono stati trasformati in medici di base che sfornano ricette mediche, così i docenti sono sempre più ridotti ad impiegati.
Già Seneca osservava come gli schiavi, non sapendo contare, non avessero coscienza di esistere. Come oggi i docenti universitari i quali, non sapendo evidentemente contare, non esistono e, quindi, subiscono tutto.
*Università dell’Insubria