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Discipline umanistiche o Stem? L’obiettivo è l’integrazione

Dovremmo acquisire una prospettiva più flessibile che avrebbe anche un forte impatto sulla valutazione dei docenti

10/03/2021
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Corriere della sera

di Francesco Billari e Gianmario Verona

Un’ora in più di matematica e una in meno di latino. Rimettiamo l’educazione civica, anzi no, togliamola. La riforma del sistema scolastico sembra passare da questa equazione: un po’ più di questo e un po’ meno di quello. Non è il metodo giusto: per riprogettare la scuola, ma anche l’università, dobbiamo pensare a come formare generazioni in grado di affrontare la complessità del mondo e non rispettare gli equilibri esistenti.

La pandemia ha una volta in più evidenziato che è necessario usare i saperi in modo complementare: medicina e comunicazione, logistica ed etica, economia e legge perché abbiamo sempre più bisogno di medici che sanno di economia, ingegneri che sanno di filosofia, artisti che sanno di informatica, psicologi che sanno di neuroscienze.

Oggi invece chiediamo a una ragazza di 13 anni di scegliere tra una formazione classica, scientifica o specialistica. Questa scelta segnerà per sempre la sua traiettoria di vita. Poi a 18 anni si chiederà, a coloro che sono sopravvissuti al sistema, di scegliere tra fare l’avvocato o l’ingegnere. Dobbiamo partire da una prospettiva più flessibile che stimoli l’integrazione dei saperi, anziché un approccio rigido che punti alla scelta di un campo rispetto all’altro.

Dobbiamo farlo per recuperare un oggettivo ritardo rispetto agli altri Paesi. Siamo agli ultimi posti dell’Ue per quota di giovani che raggiungono almeno un diploma superiore: 76% tra i 25-34 enni, contro l’85% della media Ue. La scuola italiana, volta prevalentemente alla formazione culturale e metodologica, discrimina ed esclude un maggior numero di giovani, con un gran costo per il Paese. Occorre avere il coraggio di riformarla, anche imparando dagli altri e abbandonando l’innata autoreferenzialità.

Oggi mettiamo in secondo piano le abilità del vivere quotidiano (saper programmare il computer, saper comunicare, saper parlare in pubblico) e del sapere quotidiano (leggere un bilancio, leggere gli articoli del codice civile, navigare in rete sapendo distinguere una notizia vera da una falsa). Sappiamo poco e male le lingue. L’Italia è ultima in Ue per numero di adulti fluenti in una lingua straniera: meno dell’11% (età 25-64), contro una media europea del 25%. E l’English Proficiency Index ci colloca ancora una volta agli ultimi posti in Europa.

Il ritardo è più drammatico per l’università. Siamo penultimi nell’Unione europea per percentuale di laureati (meno del 28% al 2019 sulla popolazione tra 25 e 34 anni e molto lontani dalla media dell’Ue (quasi il 40%). La riforma, con articolazione tra lauree («trienni») e lauree magistrali («bienni»), è stata interpretata in modo errato. Abbiamo ingessato il sistema più di quanto non lo fosse, con lauree che sembrano scritte con il «manuale Cencelli» dei settori scientifico-disciplinari e che hanno portato a trienni incentrati su approcci teorici, metodologici o «culturali» e non professionalizzanti come nelle intenzioni. Risultato: quasi tutti gli studenti completano il ciclo quinquennale restando ancorati a un’unica area disciplinare.

Riformare scuola e università vuol dire ripartire dall’organizzazione del sapere e dalla sua articolazione in classi disciplinari. Questo avrebbe un forte impatto anche su un altro nodo cruciale del sistema: la valutazione dei docenti in particolare universitari. Siamo tutti d’accordo, umanisti e medici, scienziati sociali e ingegneri, che è giusto misurare la performance di insegnanti e ricercatori. Non possiamo essere contrari, in un Paese, l’Italia, che di premialità scarseggia nel sistema di incentivi, con conseguenze nefaste tra cui la fuga di cervelli. Ma lo scontro è su come farlo già oggi. Per essere abilitati al ruolo di professore occorre superare delle soglie numeriche su libri, articoli e altri prodotti della ricerca. Si tratta di una condizione minima: una volta superata, la commissione di «Abilitazione scientifica nazionale» valuta esplicitamente la qualità dei lavori presentati. Possiamo però fare di più.

Nelle discipline Stem, e non ancora abbastanza nelle scienze sociali, gli indicatori basati sulle citazioni debbono entrare nelle valutazioni. Almeno come valori soglia: è improbabile che un articolo fondamentale sia stato citato 3 volte in 10 anni. Anche nelle arti e nelle discipline umanistiche le grandi università (Oxford e Cambridge, al n. 1 e 3 nella classifica per arti e discipline umanistiche) chiedono ai docenti di sottoporre i loro «prodotti» alla valutazione tra pari. E questo determina l’allocazione delle risorse.

Scuola e università vanno riformate non per creare più cattedre con un’operazione chirurgica di dissezionamento delle aree disciplinari a vantaggio delle lobby, ma per creare un sistema di ricerca e educazione in grado di aiutare le prossime generazioni, di creare più mobilità e inclusione sociale. Avendo chiaro questo obiettivo dovremmo capire come renderlo possibile. Integrare i saperi, legare metodo e competenze alla cultura e, sì, anche incentivare adeguatamente le persone sono condizioni imprescindibili per farlo.


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