«Dalle lauree flessibili una risposta al bisogno di nuove competenze»
La ministra dell’Università e della Ricerca, Cristina Messa, analizza le priorità del Recovery plan
Eugenio Bruno
Senza riforme anche il Recovery plan, e la pioggia di risorse che porta con sé, rischia di essere inutile. È il sottofondo che accompagna l'intera riflessione della neoministra dell'Università e della ricerca, Cristina Messa, sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In un'analisi a tutto tondo che parte dagli studenti e dalla necessità di rendere le lauree sempre più flessibili, passa dalla mobilità dei ricercatori e arriva alle sfide dell'innovazione. Nella consapevolezza che «se non semplifichiamo le regole sulla collaborazione pubblico-privata sarà tutto inutile».
Come ha ricordato lei stessa in commissione il Mur esiste da 14 mesi e da 12 siamo in piena pandemia. Che cosa state facendo per permettere agli studenti di tornare in presenza?
Non vediamo l'ora di dare una situazione di normalità. È vero che c'è una sofferenza forse più contenuta rispetto alla scuola ma i ragazzi che si sono immatricolati nel 2019-20 non sono andati in università o ci sono andati molto poco e sono già al secondo anno. Bisogna riaprire assolutamente. Non abbiamo mai chiuso, abbiamo cercato di tenere aperti i laboratori e le biblioteche. Chiaramente tutto dipende da due fattori: l'andamento pandemico e l'andamento delle vaccinazioni. C'è un punto fondamentale che abbiamo messo nel Fondo ordinario di quest'anno e riguarda il finanziamento dei tutorati con 36 milioni nel 2021, 24 milioni nel 2022 e 9 nel 2023. Dobbiamo aiutare gli studenti, sia quelli che entrano adesso sia quelli che sono entrati l'anno scorso, a recuperare. Non solo dal punto di vista dell'apprendimento e delle conoscenze ma anche psicologico.
Passiamo al Pnrr e ai 17 miliardi circa che destina a Università e ricerca. La prima urgenza è aumentare il numero di laureati. Come?
Si interviene da un lato finanziando di più l'accesso, sia in termini di borse di studio che di residenze. Lo student housing è finanziato per un miliardo nel piano e questo raddoppia da 400mila a 800mila i posti disponibili. Le borse di studio invece sono finanziate per 900 milioni e questo ci porta dal 12 al 21% degli studenti supportati. Ma accanto alle facilitazioni finanziarie ci deve essere un adeguamento al bisogno di competenze dell'industria e dei ragazzi stessi. E qui più che finanziare bisogna rendere più flessibile il sistema. Bisogna dare la possibilità di introdurre delle novità nei nostri corsi di studio e favorire l'interdisciplinarietà. E poi deve essere fatto un discorso chiaro anche su formazione degli Its e delle lauree con sbocco professionale. Su questo ci stiamo confrontando molto bene con il ministro Bianchi, perché tutti abbiamo l'interesse che aumentino queste competenze.
Una soluzione può essere la passerella che dopo i due anni di Its faccia svolgere il terzo in ateneo e prendere la triennale?
Penso di sì purché a monte ci sia condivisione dei percorsi dei due anni di Its con l'università.
Un'altra urgenza riguarda le Stem e le differenze di genere. Serve più orientamento?
Abbiamo messo 250 milioni sull' orientamento attivo, in parte affidato alle università, che hanno già esperienza e strutture, e in parte alle scuole. Partendo dal terzo anno di scuola superiore e coinvolgendo gli insegnanti. Ma non dobbiamo creare una contrapposizione tra i percorsi scientifici e umanistici. Dobbiamo integrarli. Se pensiamo alla guida autonoma non si può prescindere dagli aspetti giuridici, psicologi o sociali.
In commissione ha detto che ci mancano 45mila ricercatori tra pubblico e privato. Quanti ne arriveranno con il Pnrr?
Avremo circa 3.300 ricercatori in più che si vanno a sommare ai piani nazionali. Ma finora ci siamo concentrati su quelli di tipo B. Verrà superata la distizione tra ricercatori a e b?Con le competenti commissioni di Camera e Senato stiamo lavorando a un disegno di legge per un'unica figura di ricercatore con un unico periodo di tenure track di 6 anni che non vuol dire poi entrare per forza nel sistema.
E chi non resta all'università magari trova posto in un'impresa?
Su questo la misura più forte è quella di aumentare i dottorati di ricerca. Adesso ne abbiamo 9mila e a regime ne avremo quasi 20mila. Ma non saranno solo dottorati da carriera accademica. Avremo dottorati industriali, che già ci sono ma li aumenteremo, dottorati in green e digital, dottorati dedicati alla pubblica amministrazione, al cultural heritage. Queste persone devono raggiungere i risultati della ricerca ma hanno una formazione che ha già un piede nell'impresa. Perché un altro tema cruciale è la mobilità.
In che senso?
La mobilità riguarda tutto. i dottorati, i docenti, i ricercatori. Dobbiamo tornare a incentivare la mobilità. Non credo che la gente non voglia muoversi, ma che abbia paura di farlo. Qui finisce quella sul giornale.
Troppo spesso in Italia la mobilità è stata senso unico e i cervelli che hanno scelto l'estero non sono più rientrati. Che risposta si può dare?
C'è una risposta di regole, e quindi di riforme, e una di incentivazione economica. Quest'ultima sono i 600 milioni messi nel Recovery plan per i vincitori di Erc, di Marie-Curie o quelli che sono stati giudicati ammissibili ma non finanziati per mancanza di fondi. Ma c'è anche un tema di regole e torniamo alla riforma del pre-ruolo di cui parlavo prima. Sempre in tema di ricerca mi piace ricordare il finanziamento dei Prin per 1,8 miliardi da qui al 2026 oltre ai fondi che abbiamo già in finanziaria. È molto importante non solo la quantità dei finanziamenti erogati ma la loro continuità. Altro aspetto importante sono le partnership nella ricerca di base. Per le extended partnership nel Pnrr ci sono 1,6 miliardi e a differenza dei Prin sono ricerche tematiche volte a risolvere dei problemi specifici: guida autonoma, economia circolare, aspetti del green e del digital. Possono concorrere non solo le università e i centri di ricerca ma anche le imprese private. Se non superiamo le 15 tematiche diventano dei progetti consistenti. E, sempre in tema di gender gap, mettiamo che almeno il 40% delle presentazioni deve essere di donne.
A proposito di ricerca il pensiero ci porta di nuovo ai vaccini e alla pandemia. Perché abbiamo fatto fatica ad arrivare a una soluzione di tipo nazionale?
Qui siamo al grande tema del passaggio dalla ricerca di base e applicata alla produzione e al business. È una fascia molto ampia e riguarda la valorizzazione dei prodotti della ricerca che ancora scarseggia, sia culturalmente che finanziariamente. I nostri docenti non sono incentivati a valorizzare i prodotti perché sono valutati sulle pubblicazioni scientifiche e l'industria prende in mano questo tipo di progetti quando hanno già una solidità e un gradino di valorizzazione visibile. In mezzo c'è il baratro. In più mancano le filiere. Se avessimo fatto una filiera sul tema terapie biologiche e vaccini, unendo i centri che hanno già una massa critica forte e mettendoli in filiera, forse adesso saremmo un pochino più incisivi anche con l'industria.
In questo un aiuto può arrivare dai 4 miliardi che il Recovery destina al trasferimento tecnologico.
Insieme al Mise ci occupiamo dei centri nazionali che devono mettere insieme le tecnologie abilitanti e rispettare tre criteri. E cioè che chi presenta i progetti deve dimostrare di avere massa critica e competenze integrate tra università, centri di ricerca e industria, deve lavorare negli aspetti che vanno dall'innovazione al business e deve essere in grado di dare un business plan che assicuri la sostenibilità a lungo termine. Ma insieme a questa, che è una misura nazionale e che riguarda temi ben precisi come il green e il digital, c'è anche quella sugli ecosistemi, che invece è territoriale e attiene più al mio ministero. Questa misura combina le tematiche con le competenze trasversali: scelgo i centri a cui rivolgermi perchè ho un'idea o perché hanno le componenti necessarie, pubbliche o private, per portarla avanti. Sono realtà che spesso già ci sono e che vanno aiutate a darsi una dimensione extra-regionale.