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Dall’integrazione all’isolazione

di Raffaele Iosa

22/01/2012
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ScuolaOggi

Un ragazzotto autistico manda al pronto soccorso la sua insegnante di sostegno. Poi butta per aria i banchi,   nella classe  solitaria dove è  “accolto” per fare integrazione. La povera insegnante è una volenterosa precaria che non ha mai visto un autistico, esperta di Orazio, ma la nomina di un anno è ghiotta  in questi anni di crisi: accumula punti. Eppure ci ha messo il cuore, ma si è trovata con dolorose ecchimosi. Naturalmente vado in ospedale, parlo con tutti, cerchiamo soluzioni….

Mi chiama un’insegnante di sostegno bravissima, super specializzata, che segue con competenza un ragazzo disabile “equivalente” in  una superiore. Il professore di lettere è ben disposto verso il ragazzo, ma c’è un problema e telefonano. Nel programma del 5° anno si prevedono 6 novelle del Verga e forse per il ragazzo sono troppe. Potrebbe farne di meno e fare la maturità lo stesso? Rispondo stupito che serve sapere cos’è il verismo e  avere il piacere della lettura, non il numero! Non solo a lui, ma a tutti! E che una o cento novelle non fanno il  verismo, che è la cosa che conta della domanda. Risposta dei due sollevata: è arrivato il miracolo! Ma sono un ispettore “vero”?

Mi occupo di disabilità da una vita, a livelli anche internazionali e a volte con ruoli istituzionali, da 10 anni vedo con sgomento un’amministrazione centrale che non guarda al “Merito” ma alle appartenenze, e intanto sta degradando  l’integrazione, di cui i due piccoli esempi sono il segno. Nella mia regione, dove l’USR nonostante il MIUR si impegna con molta serietà e passione sulla disabilità, facciamo di tutto per la qualità, e i casi di “difficoltà” curati sono quotidiani. Ma possiamo far bene se il centralismo ministeriale e sindacale è contraddittorio?  Come è possibile, nel paese primo al mondo in integrazione, che una brava ragazza senza titolo sia il sostegno di un autistico grave? Come è possibile che dopo colte chiacchiere su “competenze” e “saperi essenziali” bravi professori siano condizionati dalla quantità al punto da diventare patetici?



La mia tesi è nel titolo. L’esperienza più interessante dal punto di vista pedagogico del nostro paese, l’integrazione scolastica, sta scivolando pian piano verso un nuovo fenomeno negativo che chiamo “isolazione”. Riguarda la scuola ma anche la clinica e le politiche sociali: per tutti coloro che non sono negli standard di una presunta “normalità” (oggi sempre meno definibile) piuttosto che cercare le connessioni possibili all’insieme olistico del sè,  la scuola, il mondo, si “isolarizza” l’umano con simboli rituali da neo-sciamani, pratiche che separano, attenzione al sintomo e non alla persona,  con effetti perversi. Si badi bene, grazie a Dio in Italia l’integrazione riesce ancora lo stesso bene o male a funzionare, ma vivacchiando! Con un mix tra  buona volontà e  approssimazione (molto italioti) per cui i nostri ragazzi H stanno comunque meglio con noi che nei lager speciali di altri paesi europei. Ma con costi ed errori alti, scadimento della qualità, troppe opportunità e sviluppi potenziali mancati. E  maggiori spese, nonostante tutti i tentativi di contenerle. Ma può durare?

L’isolazione pian piano sta modificando l’integrazione. L’isolazione non è l’isolamento anche fisiologico presente nelle scuole impaurite dal disabile duro, ma una volontaria azione (scientifica e politica) di dominio della separazione, la differenza asimmetrica sopra le connessioni, sia nella persona  che negli interventi scolastici, clinici, sociali. La nostra integrazione scolastica sta diventando un ossimoro, un paradosso e una china pericolosa che oggi giunge al livello del limite.

La recente ricerca dell’Istat è l’apologia del noto, bastava leggere la nostra “Relazione MPI al Parlamento sulla 104” del 2000 per trovare già tutto. Altrettanto si può dire della Fondazione Agnelli che ricopia le nostre ricerche, e giunge a proposte timide e contraddittorie.   I problemi sono noti da tanto, ma non sono effetto di mala gestione, quanto di una  neo-ideologia, figlia del conservatorismo compassionevole, “degli individui isolati” che condiziona le politiche sociali, cliniche, educative, cui servirebbe la critica di nuovi  Faucault e Marcuse  sull’unidimensionalità della normalità e del “muro chiuso” per tutti gli altri.  Io lavoro sul campo,  mi piace sporcarmi sui  fatti, preferisco quindi qui portare a sostegno della mia critica e un po’ di proposte su alcuni fenomeni strutturali e concreti che osservo ogni giorno a scuola.



1. il disabile come spesa



I disabili sono troppi. Con questa filosofia il primo decennio del 2000 è andato a caccia dei disabili “falsi”. E quindi: rivisto l’ICDH-10 (strumento OMS di valutazione clinica) (da regione a regione!) cui dire a chi sta male  “te sì, “te no”. A volte anche con la condivisione delle associazioni dei disabili “storici” che temono l’aumento delle certificazioni e il restringimento dei servizi. E poi, le famiglie considerate “potenziali imbroglione”: quindi certificazione medico-legale e  INPS.  Forme inquisitorie che mortificano. C’è la tradizione dei “falsi invalidi adulti”, ma anche con i propri figli?

Eppure, questa dura politica, armata e costosa, è fallita: il numero dei disabili a scuola non è diminuito, anzi è via via aumentato! Evento da me previsto, unico ma sputtanato, già nel 2005!     Cosa quindi non funziona? Nessuno parla di questo fallimento isolante, e chi l’ha perseguito resta nella sua carriera  (questa non “certificabile” mai tra azioni compiute ed esiti prodotti!).

Il fatto è che la Legge 104, pur emerita per il suo valore, non ha risolto la complessa questione  della definizione di  handicap. Pur pensando di garantire risposte  a diritti-bisogni, la definizione  scappa da tutte le parti, non si  chiude nel clinicismo, soprattutto non regge a fronte di una diversa visione (più europea) dei cosiddetti “bisogni educativi speciali”. La frenesia di separare, fare scale (es grave/non grave) crea più problemi che chiarezza. Si veda cosa  accade con i DSA: una legge isolazionista che crea più problemi di quelli che risolve, centrata su diagnosi separatiste (di dubbia coerenza scientifica), ghettizzanti e non integranti, su cui tornerò in un prossimo articolo.  E poi, il male peggiore: la simmetria burocratica certificazione/sostegno, a prescindere dal contesto. Tutto  ridotto a posti. Con le perversioni che vedremo.

Si veda altrettanto il voluto non utilizzo dell’ICF (nuovo strumento OMS,  dal 2000 obbligatorio!) come nuovo paradigma diagnostico: una visione olistica della persona nel suo metabolismo bio-psico-sociale.  L’osteggiano i medici della separazione diagnostica e i burocrati del bollino H?.

Ma perché aumentano le certificazioni?  Leggete “L’amara medicina” di Roberto Volpi, emerito statistico: la politica preventiva  diagnostica  europea segnala una vasta gamma di errori clinici (e spese) perché scientificamente  sbagliati nell’interpretazione isolatrice. Non solo a scuola, quindi.

Dunque, la mia tesi, sulla base di ricerche trentennali e dell’approccio di Volpi, è questa: la “certificazione di disabilità” è una sommatoria di più variabili di cui quella “clinica” è una della tante, ma non sempre la più significativa. Soprattutto su alcune aree di disabilità (es. alunni sordi) la diagnosi può sembrar facile.. Ma nel vasto parterre di quelle disabilità (80% del totale) cognitive, relazionali (spesso più dolorose e complesse) in cui il “soma” sembra “normale” ma ha problemi “l’anima”, conta molto l’idea delle famiglie, l’apologia del salutismo, la dominante iatrogenesi (rileggiamo “Nemesi Medica” di Illich), l’approccio del medico, le “dicerie” sui comportamenti accettabili, ma anche la difficoltà sociale di un territorio, la complessità della scuola, la sua organizzazione, la sua mentalità,  le sue risorse materiali.

Si può quindi sostenere che il numero complessivo dei bambini certificati (nonostante siano oggi vagliati dalle severe commissioni legali) è frutto del  “combinato disposto” di più variabili non solo cliniche. Ne approfondisco brevemente qui solo quattro inerenti la variabile scuola, molto curiose.

La prima ci dice che se aumenta il numero medio di alunni per classe e non sono ridotte se hanno alunni H, c’è maggiore probabilità che aumentino le certificazioni. Effetto paradosso:  una massa di bambini “border liner” che ricevono oggi certificazioni (legali!) ma che una volta sarebbero invece stati ben accolti senza patemi certificatori in tranquille classi. La seconda ci dice che la frenesia del precocismo induce diagnosi precoci (e il mito della prevenzione) che una volta avevano attese più lunghe e spesso esiti di non certificazione. E’ il caso ad esempio dei bambini adottati che si certificano “in via preventiva”. La terza è l’apologia del merito e dei voti, che manda un’eco selettiva per cui la “certificazione” diventa una sorta di protezione di cui prima c’era meno bisogno. La quarta è data dalle poche e disconnesse politiche sul disagio sociale: una volta si  riconducevano casi oggi certificabili entro altri progetti; oggi invece, in assenza del tutto (docenti in più, compresenze,  politiche di territorio) si isolarizza ”la singola sofferenza” dal contesto perché non c’è alternativa. Vi sono molte altre cause, tra cui “l’idolatria del gene”, l’invadenza del clinico sul pedagogico, la sindrome della paura dei tempi tristi, le nuove pene esistenziali del ceto medio, l’handicap “straniero”, ecc…ma qui approfondisco solo i guai di casa mia, la scuola.

Il governo della formazione è complesso, è per natura poli-variabile,  nessuna ideologia grossolana ci  aiuta, e neppure il dilettantismo amministrativo di questi anni.

Reagisce a questa  linea isolante il modello Trento, di cui è propugnatore Dario Ianes, che baypassa (almeno nel rapporto con le risorse) la certificazione 104  e riconduce ai “bisogni educativi speciali” una politica complessiva di intervento. Così “separando” (in modo positivo) il momento clinistico da quelle dell’intervento sociale, pedagogico, terapeutico si pulisce la vera contraddizione di tutta la storia  della Legge 104/92: la relazione automatica e burocratica tra certificazione e risorse.

Questo approccio unitario sui  “bisogni educativi speciali” come sguardo integrativo e non isolativo è difficile, ha una sua maturazione culturale vera se parte dalla filosofia dell’ICF, e da una politica sociale capace di scegliere strade orizzontali (scolastiche, sociali, familiari, cliniche, ecc..) davvero integrate e non di risposta uno-uno (isolatrice) ai diversi problemi. Ha effetti pieni di opportunità nella gestione delle risorse e nella formazione dei docenti  cui l’apparato ministeriale - sindacale non è mai stato  abituato. Molti temono sia più costoso, mentre numerose ricerche sul lungo periodo (non solo nel periodo scolastico) dimostrano il contrario come spesa storica di welfare sociale.          Complica l’estensione di questa pratica integratrice  l’effetto di anni duri in cui le famiglie dei disabili hanno vissuto una gestione precaria e corporativa dei sostegni e sembrano oggi  portati (per legittima difesa) a chiedere  solo “sostegni in più”. Li considero i  meno colpevoli, ma ogni sentenza dei tribunali è una sconfitta economica (chi paga?) e culturale per tutti. Anche le famiglie comprendano che chiedere per il figlio più isolazionismo alla lunga non paga, ma danneggia il suo futuro. Oggi Trento è un caso originale che va studiato, interessante e da discutere con franchezza, comunque un modello in un’Italia che rischia la deriva e la delusione in fatto di  integrazione.


2.Il docente di sostegno  isolante



Vi sono studenti H che in 16 anni di scolarità cambiano anche più di 20 insegnanti di sostegno. Non sono rari. La “mobilità” dei docenti di sostegno è molto più vasta rispetto ai “curricolari”. Paradosso isolazionista vergognoso che da 20 anni non si riesce (non si vuole) risolvere. La causa sta nel pastone contrattuale e organizzativo in cui avviene la gestione dei posti di sostegno. In primis: organici di diritto (in genere la metà dei posti effettivi che si utilizzeranno) neppure tutti con persone di ruolo perché le nomine sono al contagocce. Se come sostegno entri nei ruoli: cinque anni di sacrifici e infine…la pacchia verso la sospirata cattedra disciplinare. Il sostegno scorciatoia alla faccia dei bambini. Poi organico di fatto: infornata di precari con o senza titolo (in genere  metà e metà), gente che varia di anno in anno. Ma non è finita: dopo l’organico di fatto  un’altra infornatina di precari per applicare la sentenza della Corte Costituzionale sulle deroghe, a questo punto precari ultimi delle graduatorie e senza titolo. E tutto questo ogni anno, senza alcun vincolo per nessuno.

Alla fine di questa fiera impazzita,  1 docente su 4 non sa nulla di handicap, solo 15 su 100 sono gli eroici di ruolo che restano più di 5 anni senza alcun premio, ma circa 120.000 docenti a tempo indeterminato hanno oggi un titolo di specializzazione H che si guardano bene dal riutilizzare.  La “volatilità” tra diritto e fatto è tale che solo un terzo dei bambini ha la garanzia di avere per almeno 2 anni lo stesso insegnante di sostegno (tutto il ciclo è un sogno per meno del 10%) Il quadro è assurdo: i bambini che avrebbero bisogno di maggiore competenza, stabilità e continuità pagano costi immensi da questa confusa gestione dei posti. Ho già scritto in altre occasioni che i bambini H sembrano solo pretesti per altro. Il posto. Il diritto al posto prima del diritto allo studio!

Ben 25 anni fa (1987) ho scritto un saggio dal titolo “Piuttosto che un bambino un pretesto” dove (dati alla mano) segnalavo già questi problemi e portavo in più, come esempio, un altro “strano evento” riguardante la provincia di Cagliari,  campionata per puro caso: la “gravità” dei bambini H cui si concedono posti ore “in deroga” era inversamente proporzionale alla distanza della scuola dal municipio del Comune capoluogo di provincia. I cagliaritani (sindacalisti e ministeriali) mi tolsero il saluto per anni. Ma è un caso italiano non sardo: più grave se sta centro perché più comodo?          Ma vediamo ora cosa si potrebbe fare, partendo da una regola interessante. C’è una regola studiata da molto tempo e da più ricerche, anche mie: la “stabilità-continuità” dell’insegnante di sostegno in una scuola riduce la domanda quantitativa di sostegno perché il primo a dover essere integrato…è lui. La questione è banale: una collega esperta, che vive con voi da anni, fa squadra meglio, gestisce le relazioni, coinvolge gli altri in un lavoro comune. Ma se arriva a settembre una brava ragazza che non sa nulla di handicap e che spera l’anno prossimo di insegnar latino sotto casa, cosa vi resta da proporgli se non di restare con il ragazzino a far qualcosa? Insomma, la precarietà docente aumenta l’isolazione dell’alunno, l’uscita di classe dei bambini, la domanda di posti e ore in più perché tutto il sistema scuola-plesso a quel punto si degrada e tutto è più difficile. La stabilità è un fenomeno non sindacale, ma pedagogico, politico ed anche economico: ha effetti positivi per tutti, in primis per i bambini H ma anche per le casse dello Stato. Ma è come parlare al vento.

Nel 2007/2008 pur in modo precario e turbolento, ai tempi di un Fioroni distratto sul tema, ho lavorato in una bella squadretta che aveva definito una modalità radicalmente nuova di gestire la faccenda, dalla certificazione ai sostegni alla governance territoriale con obbligo di ICF. Era palpabile l’ostilità dei ministeriali romani, e scarso l’interesse sindacale. Il testo peraltro è diventato pubblico con un  “Accordo Quadro Stato - Regioni” (20 marzo 2008) e faceva parte di una logica di sistema entro cui era collocata anche la finanziaria sui posti calcolati 1 a 2, che avrebbe triplicato i posti di sostegno stabili. Quell’Accordo precedeva di poco le elezioni, e poi il dicastero Gelmini si guardò bene dall’applicarlo, nessuno se ne interessò, e poco dopo la Corte Costituzionale, in assenza di quadri sistemici di gestione, bocciò i posti di sostegno della logica 1 a 2  riaprendo le cause in tribunale. Con gli esiti catastrofici che  vediamo. Ma cosa diceva questo Accordo sul tema di cui qui ci occupiamo? Prevedeva, ad esempio, che la certificazione restasse nell’ambito delle neuropsichiatrie come “diagnosi avente effetti nella scuola”, semplificando la vita delle famiglie. Metteva al centro L’ICF e la governance locale modificando il PEI non come programmino dell’isolato sostegno, ma “patto territoriale” di tutti i soggetti educativi, clinici, sociali, la famiglia nella logica del Progetto di vita. Sugli insegnanti di sostegno, non potendo fare di più  (troppo debole la sottosegretaria, confusi  sindacati e partiti, assente Fioroni) l’invenzione di una titolarità “territoriale” (reti di scuole) dei sostegni che avrebbe in parte ridotto la mobilità annuale. Su questo punto apriti cielo dei sindacati (e dei ministeriali): si ledeva il potere distributivo degli USP e si obbligava gli insegnanti a restare in un territorio dato. Dalla mia regione Emilia Romagna poi, con mia grande sorpresa, anche un siluro contro l’ICF perchè l’Accordo 20.3.2008 prevedeva che  doveva essere frutto di un lavoro partenariale  clinico-pedagogico, quindi: lesa maestà ai dottori!

Nel periodo Gelmini tutto fermo, se non la continuazione della  caccia ai disabili falsi. Solo una  noterella chiamata “Linee guida” che predicava cose già ovvie per legge, senza alcun coraggio sulle visioni di sistema con gli enti locali. Una regressione  autoreferenziale solo dentro la scolarità.



Ma ci sono oggi le condizioni per riprendere un serio discorso? Nel primo insediamento del nuovo Osservatorio voluto da Profumo (morto con la Gelmini) se ne è riparlato per riprendere i fili anche della governance territoriale. Siamo alla cronaca del presente e ad un po’ di speranza. Da un governo tecnico, meno ricattato, qualche scelta coraggiosa si impone. Mi attendo ormai purtroppo poco dai sindacati, che mai hanno avuto il coraggio di prendere il tema per le corna: prima il bambino o prima l’insegnante?

Quanto a me, senza volare troppo  sul modello-Trento (che mi piace, ma sto a Ravenna) né lavorare per la fine tout court del’insegnante di sostegno (pur temi interessanti) basterebbe che in questa congiuntura transitoria del chiasso politicante  venissero alcuni fatti-segnali, per ricondurre almeno al buon senso la gestione,  se si vuole (come si dice) ripartendo dal 20 marzo 2008 e da lì in avanti:

-       Ripensare radicalmente la formazione iniziale perchè la cosiddetta “pedagogia speciale”

è parte strutturale della pedagogia e non accessoria. Anzi l’attuale eterogeneità sociale della modernità globalizzante (sull’eterogenità farò un altro articolo) chiede a tutti gli insegnanti di essere “normali in modo speciale”. Se non aumenta la consapevolezza dell’eterogenità pedagogica dei nostri ragazzi lasceremo a graduatorie casuali e a docenti sparpagliati  la più bella esperienza pedagogica italiana del 900, suddividendoli burocraticamente per i disabili, i DSA, poi i nervosi, poi i grassi, poi i timidi, isolazione per isolazione.

-       Avere il coraggio di  riscrivere le norme contrattuali e professionali dei docenti a favore

degli alunni disabili. Per esempio: perchè si obbligano le maestre “specialiste” di inglese a tornare nelle classi e non si può fare altrettanto per i docenti con specializzazione H per tornare al sostegno se nella scuola non vi sono competenze vere, in una logica di organico funzionale e non separato? Non era meglio che la supplentina del mio autistico facesse latino e al suo posto un docente disciplinare con specializzazione tornasse al sostegno? E perché non garantire continuità anche ai precari con titolo se il posto di sostegno è ancora vacante l’anno dopo?  E perchè non aumentare da 5 a 7  gli anni di sostegno prima dell’ingresso nelle cattedre? Serve un’opera virtuosa che sposti l’asse verso i bambini per vederne gli effetti anche sulle altre variabili qui descritte.

Per un  cosiddetto governo dei tecnici ci potrebbe essere meno timore nel fare scelte coraggiose.


3.La governace locale isolante



Sempre nell’Accordo Stato-regioni del 20 aprile 2008 era data enfasi alla governance locale dell’integrazione. Perché sappiamo tutti che i più “disintegrati” e isolatori siamo noi, quando tra scuola, servizi sanitari, sociali e famiglia si lavora a canne d’organo ognuna con quella  frase che piace tanto ai cacciatori di disabili falsi: “nell’ambito delle rispettive competenze”. Mai frase è stata così funesta per i disabili. La disabilità chiede invece che “....a partire dalla propria competenza” significhi  fondersi-mescolarsi-condividere con gli altri mettendo al centro il Progetto di Vita della persona, il vero cuore (per Legge: 328 del 2000!) di tutte le politiche nazionali di inclusione. E’ paradossale che nel periodo di più spinto dibattito sul federalismo, di tutto questo c‘è il nulla. Anzi il più stretto centralismo e impoverimento della sussidiarietà. Girano “accordi di programma provinciali” di vecchio stampo che si dimenticano delle scuole autonome, che esistono i piani di zona, che insomma c’è altro. Che ad esempio  il PEI non è più  il progettino scolastico isolato dal resto ma il “patto territoriale annuale” di tutti i servizi, come normale strategia di integrazione. Ma dove si fa?  Da qui uno spreco di competenze separate, doppioni inutili. Penso ad esempio al progettino sull’ICF del MIUR che dava pochi soldi  (10 volte meno che sui DSA)  a qualche scuola senza alcuna coraggiosa  relazione partenariale con il Ministero Sanità.  Come penso alla confusa gestione delle risorse regionali e locali, mai messe in rete con quelle statali. Un guazzabuglio di “centri territoriali” doppi e tripli, posti per nulla ed ognuna a sgomitare la propria necessarietà.

Troppo spesso sono costretto a dire a qualche collega recalcitrante o  pigro “prova te ad avere un  figlio cui devi cambiare il pannolone  a 15 anni”. Se si giunge a questo è proprio triste, spero sempre che almeno smuova granitiche abitudini per realizzare il vero che c’è dietro all’integrazione scolastica: sconfiggere il darwinismo biologico e sociale negli umani e credere che per tutti c’è un posto e un destino nei limiti di tutto (ma proprio tutto) il possibile.


4.Un postscriptum doloroso



Scrivo ora un ultimo  breve sussurro, per me doloroso al punto da faticare a scriverlo, su un dato di cui nessuno parla ancora. L’epidemiologia è una brutta bestia: parla coi  numeri, ma  serve a capire. Dunque: i numeri ci dicono che sta cambiando la popolazione disabile infantile. Sono sempre meno i bambini con patologie genetiche, inutile negarlo esito delle molteplici azioni ostetriche pre-natali (test, ecc..). Non esprimo giudizi morali, è tema duro, mescola dolore a paura, mescola il mio rispetto totale della donna incinta e il timore della deriva eugenetica.

Ma sono anche sempre di più i bambini con poli-disabilità gravi sopravvissuti per gli strepitosi successi dei neonatologi che fanno sopravvivere feti-bambini di 6 mesi.. Anche questo non è facile da commentare. Tecnologia, natura  e umanità,  problema grandioso e terribile! E poi: due eventi opposti accadono per merito della stessa potenza della tecnologia medica. Quale limite? Mah!

A scuola bisogna pensarci per tempo. Ma dentro di me questo discorso crea inquietudine morale e civile, che mi obbliga a smettere di discettarne. Sono cose ben più serie dei posti di sostegno.


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