Crisi e scienza: impatto e lezioni
La crisi economica sta cambiando la struttura della nostra società, introducendo disuguaglianze insormontabili, marginalizzando le energie più giovani, soffocando la ricerca scientifica e così inibendo anche la possibilità di sviluppare quelle idee e innovazioni che potrebbero contribuire a guidarci fuori dalla crisi stessa. La scienza può però fornire degli strumenti chiave non solo per la comprensione dei problemi alla radice della crisi attuale ma può anche suggerire soluzioni possibili e originali.
di Francesco Sylos Labini
La crisi economica sta cambiando la struttura della nostra società, introducendo disuguaglianze insormontabili, marginalizzando le energie più giovani, soffocando la ricerca scientifica e così inibendo anche la possibilità di sviluppare quelle idee e innovazioni che potrebbero contribuire a guidarci fuori dalla crisi stessa. La scienza può però fornire degli strumenti chiave non solo per la comprensione dei problemi alla radice della crisi attuale ma può anche suggerire soluzioni possibili e originali.
Segue la conversazione con FRANCESCO SYLOS LABINI di FRANCESCO SUMAN e OLMO VIOLA (Pubblicato su Micromega ). L’economia è una scienza? I modelli elaborati dagli attuali economisti neoclassici hanno lo stesso potere predittivo delle teorie fisiche? Sono domande importanti perché come i modelli dei fisici sono usati per costruire razzi che mandano in orbita satelliti che ci permettono di usare i nostri smartphones e internet, così i modelli degli economisti neoclassici sono usati dai politici per prendere decisioni che hanno conseguenze sui servizi pubblici, sull’economia reale e sulle nostre scelte di vita. A quanto emerge da una recente disamina l’economia neoclassica può essere classificata come pseudoscienza e comporta una serie di conseguenze negative a vari livelli: in politica, nella società, nella cultura e nella ricerca scientifica. Di questo si discute nell’intervista con il fisico Francesco Sylos Labini.
Un modello teorico che ambisca a diventare una spiegazione scientifica della realtà dovrebbe produrre predizioni su fatti nuovi che permettano di controllarne l’affidabilità ed eventualmente confutarlo. Il successo empirico è un buon indicatore, non certo infallibile, dell’alta probabilità che una teoria possa aver colto una qualche regolarità della realtà, e possa conseguentemente divenire utile per pianificare azioni sulla stessa realtà. Un modello ipotetico che abbia ambizioni esplicative ma che fallisca il controllo empirico dovrebbe essere abbandonato dai ricercatori, e questo solitamente avviene nelle scienze sperimentali. Talvolta è possibile aggiungere ipotesi ausiliarie, ad hoc, che temporaneamente coprano le falle della teoria, ma un eccessivo accumulo di queste anomalie è segno di scarsa salute della teoria stessa, che andrebbe sostituita con una più aggiornata. Capita tuttavia che una comunità scientifica si affezioni particolarmente a un modello esplicativo e si dimostri talvolta restia ad abbandonarlo, nonostante i suoi ripetuti fallimenti predittivi. Se le resistenze sono dovute a convinzioni arbitrarie derivanti da una determinata visione del mondo (Weltanschauung), e non da ragioni veramente scientifiche, la teoria difesa strenuamente assume i caratteri della pseudoscienza. Continuare ad affidarsi a un simile strumento esplicativo per interpretare la realtà appare quantomeno irresponsabile, in quanto viene spacciata come affidabile una teoria che presenta troppi e compromettenti problemi.
La scientificità è dunque un’etichetta prestigiosa di status e non è facile da acquisire. Ne consegue che talvolta ci si auto-attribuisce uno statuto di scientificità proprio per ammantarsi di autorità. Il ricercatore Francesco Sylos Labini, fisico teorico che lavora presso il centro Enrico Fermi di Roma e redattore della rivista online ROARS[1], si è domandato nel suo ultimo libro, Rischio e previsione – cosa può dirci la scienza sulla crisi[2], se l’attuale teoria economica neoclassica che informa la politica internazionale rispetti le regole basilari del gioco scientifico. Ne segue una critica ai principi dell’economiamainstream e una disamina delle conseguenze che investono ricerca scientifica e politiche nazionali. Il quesito sarebbe dovuto sorgere in ognuno di noi dopo che la grande crisi del 2008 si scatenò investendo l’economia mondiale, senza che la teoria economica corrente fosse stata in grado di prevederla. Ma le anomalie possono essere ignorate se esiste una cintura di protezione abbastanza forte da disinnescarle, e in questo caso si può pensare all’egemonia culturale che l’economia neoclassica è riuscita a imporre negli ultimi decenni. Parlare di questi problemi diviene più che mai necessario dato che tali modelli impongono dogmaticamente una certa interpretazione della realtà (definendo quantitativamente ad esempio l’idea di benessere) generando effetti collaterali che si allargano a ogni angolo della nostra società – alle istituzioni, ai servizi pubblici, alla ricerca scientifica – e non ultimo influenzano profondamente la qualità della nostra vita. Di questo si discute nell’intervista con Francesco Sylos Labini.
M = Olmo Viola e Francesco Suman per La Mela di Newton
FSL= Francesco Sylos Labini
M: Lei racconta nel suo libro che nel novembre del 2008 la regina Elisabetta II, durante una visita presso la London School of Economics, chiese alla platea gremita di insigni professori come mai non avessero previsto la crisi. Si potrebbe pensare che per rispetto e imbarazzo gli astanti non trovarono né avanzarono una risposta subitanea che soddisfasse la “domanda della Regina”. Certo ci si sarebbe aspettati che da insigni cultori della “scienza economica” arrivasse una spiegazione puntuale e appunto “scientifica” del fenomeno, ma così non è stato. Quella domanda celava fra le sue pieghe una sorta di cortocircuito (se così lo si può definire) nel quale sono incappati molti economisti. Quale vaso di Pandora ha scoperchiato la domanda della Regina?
FSL: La domanda della Regina è stata una cartina di tornasole per mostrare l’irreale dibattito in campo economico. È stata una delle prime volte che gli economisti, e in particolare quelli appartenenti alla scuola mainstream, sono stati chiamati a spiegare le loro posizioni e le ragioni del fallimento delle previsioni di fronte all’opinione pubblica. In questo modo il dibattito è stato portato all’attenzione di un vasto pubblico, invece di essere relegato all’interno della comunità academica o, peggio ancora, all’interno della stessa scuola mainstream di cui quasi tutti i docenti della LSE fanno parte. Infatti, la scuola neoclassica è stata ampiamente criticata dalle altre scuole di pensiero economico, ma quel tipo di discussione è stata troppo tecnica per raggiungere un’ampia audience. All’interno della scuola neoclassica l’analisi sulla causa del fallimento delle previsioni della più grande crisi economica degli ultimi ottanta anni è stata completamente autoreferenziale e auto-assolutoria. Al contrario, la discussione su questo fatto deve essere portata davanti al più ampio pubblico possibile perché le decisioni che sono prese in politica economica in molti paesi e in tutte le principali istituzioni internazionali (FMI, OCSE, WB, WTO, ecc.) sono suggerite o anche prese direttamente da economisti neoclassici in base a modelli che hanno certi fondamenti teorici. È dunque cruciale che i fondamenti teorici di questi modelli siano discussi di fronte all’opinione pubblica, proprio perché tutti ne subiscono le conseguenze. Inoltre, non trattandosi di gravità quantistica o della teoria delle stringhe, non è neppure molto complicato spiegare in termini semplici di cosa si tratta in modo che tutti possano farsene una opinione.
M: Già a partire da questa sua prima risposta si aprono e si intrecciano molteplici questioni fondamentali che meritano di essere approfondite. Pensiamo potrebbe essere fruttuoso percorrere una strada esplicativa a partire dai problemi epistemologici che presenta la teoria mainstream, per giungere poi ai problemi socio-politici che ne conseguono. Gli economisti neoclassici sono stati capaci di organizzare un paradigma che si è imposto in una molteplicità di settori e istituzioni, arrivando a monopolizzare completamente la discussione economica che informa le decisioni politiche. Quali sono i principi alla base di questo modello?
FSL: Il nucleo dell’analisi economica standard, che rappresenta anche un’importante base per le sue numerose applicazioni nel mondo della politica, è la teoria dell’ equilibrio competitivo generale. La sua formulazione moderna è dovuta all’economista francese Leon Walras e in seguito è stata sviluppata da tanti autori a cominciare dal contributo fondamentale di Gerard Debreu e Kenneth Arrow. Dal lavoro di Walras in poi gli economisti neoclassici concettualizzano gli agenti, che possono essere le famiglie, le imprese, ecc., come entità razionali che ricercano i «migliori» risultati, cioè i massimi guadagni possibili, situazione che da un punto di vista matematico equivale a trovare il massimo di un’opportuna funzione di utilità. Arrow e Debreu grazie a una serie di assunzioni teoriche (che sono del tutto irrealistiche) furono in grado di provare l’esistenza dell’equilibrio nel mercato. Tale situazione di equilibrio corrisponderebbe a ciò che gli economisti chiamano «l’ottimale di Pareto», cioè una situazione in cui nessun arrangiamento concepibile dei prezzi o delle quantità di prodotti, persino gestite da un pianificatore centrale infinitamente intelligente, porterebbe a un miglior esito senza perdite per almeno un produttore o un’impresa. La dimostrazione dell’esistenza di un equilibrio competitivo dovrebbe permettere di comprendere la maniera in cui funziona un’economia di mercato, dove ognuno agisce indipendentemente dagli altri. Tuttavia, non è mai stato dimostrato, anche usando ipotesi assolutamente irrealistiche, che permettono di semplificare il problema in modo del tutto irragionevole, che un equilibrio concorrenziale esista, sia unico e che, inoltre, sia stabile – cosa fondamentale perché tutta questa costruzione abbia un senso.
I problemi concettuali con quest’approccio sono davvero enormi e sono stati dibattuti da tantissimi economisti le cui critiche sono state nascoste sotto il tappeto e lasciate senza risposta. Diversi fisici hanno anche cercato di capire il problema, ma sono rimasti generalmente perplessi da quest’approccio al problema economico. Da più di cinquant’anni, infatti, si conoscono e si studiano sistemi fisici complessi per i quali, anche se uno stato di equilibrio stabile esiste in teoria, esso può essere totalmente irrilevante in pratica, perché il tempo per raggiungerlo è troppo lungo. Altrimenti vi sono sistemi che sono intrinsecamente fragili rispetto all’azione di piccole perturbazioni, evolvendo in modo intermittente con un susseguirsi di epoche stabili intervallate da cambiamenti rapidi e imprevedibili. In altre parole, per molti sistemi fisici l’equilibrio stabile non è una condizione raggiunta in maniera naturale: diversi sistemi raggiungono invece una situazione di meta-stabilità e non un vero e proprio equilibrio, come quello di un gas in una stanza isolata o di una pallina in fondo a una valle, cioè una situazione di temporanea stazionarietà ma di potenziale instabilità, tanto che è sufficiente una piccola perturbazione per causare grandi effetti. Come succede quando, per esempio, si accumula l’energia potenziale per effetto del moto relativo di due faglie tettoniche. Questa energia, quando supera una certa soglia critica, sarà a un certo punto rilasciata sotto forma di onde sismiche e cioè ci sarà un terremoto: la dinamica dei terremoti è dunque rappresentata da periodi di apparente quiete in cui il sistema si carica e terremoti improvvisi (ciclici e non periodici) in cui l’energia accumulata è rilasciata.
Proseguendo in questa metafora ci possiamo chiedere quale sia la causa dell’accumulazione di energia potenziale nel sistema economico, che è rilasciata al momento di una crisi. A mio parere la causa è proprio la fiducia cieca e immotivata nell’autoregolamentazione dei mercati, da cui consegue l’enorme sviluppo di strumenti finanziari che grazie alla liberalizzazione dei mercati e alla loro deregolamentazione, secondo il credo teorico, dovrebbero distribuire il rischio in maniera ottimale. Esattamente il contrario di quello che succede in realtà, come purtroppo abbiamo sperimentato.
M: Si verifica dunque una discrasia tra modello teorico e realtà. I modelli economici si basano su assunzioni che risultano essere approssimazioni della realtà troppo semplicistiche. Gli economisti paiono perdersi in un iperuranio di bei modelli, coerenti solo matematicamente, ma che falliscono sistematicamente nelle loro previsioni. E imperterriti proseguono nel loro vilipendio della realtà. A suo parere quanto è legittimato un economista a dirsi scienziato o l’economia a definirsi scienza?
FSL: Uno dei problemi cruciali è proprio quello. Si badi bene che l’economia è una scienza sociale molto difficile, interessante e affascinante. Ma non è questo il punto della discussione sul carattere pseudo-scientifico dell’economia neoclassica che usa una gran quantità di matematica per dare l’impressione di risolvere il problema economico attraverso teoremi rigorosi. Anzi, quest’apparente veste tecnico-scientifica non corrisponde, come abbiamo discusso nel libro in dettaglio, né alla capacità di fare previsioni per il futuro né allo sviluppo di una tensione per confrontare i modelli con le osservazioni empiriche.
In realtà l’apparente veste tecnico-scientifica è un trucco che serve solo a far passare quel tipo di economia per una scienza capace di trovare in maniera univoca le risposte alle diverse questioni che riguardano la vita economica di un paese, di una società o di un individuo, in altre parole è una maniera artificiosa per far apparire le scelte politiche come risultati tecnico-scientifici, e quindi neutri.
In altre parole: vogliamo giocare a fare gli scienziati? Bene: gli scienziati spiegano fenomeni, nel senso che sono capaci di formulare modelli per spiegare le osservazioni in maniera precisa e sono anche capaci di fare delle previsioni per il futuro (e magari si assumono anche le responsabilità dei propri fallimenti). Gli economisti, e qui mi riferisco ai neoclassici e più tecnicamente all’assunzione di equilibrio che sottende buona parte dell’economia moderna (anche quella che si discosta dal cosiddetto neoliberismo), non sono capaci né di fare previsioni di successo né di spiegare in modo preciso la realtà come avviene per le scienze dure. Tantomeno traggono conseguenze dai loro fallimenti, quale ad esempio eclissarsi dal dibattito pubblico come avrebbero dovuto fare molti di loro già allo scoppio della crisi.
In pratica si tratta di una pseudo-scienza e di pseudo-scienziati, non diversi dagli astrologi che anche usano la matematica e un formalismo apparentemente rigoroso ma completamente irrilevante per spiegare la realtà. Questa pseudo-scienza è utilizzata per supportare interessi politici ed economici ben precisi e questo a mio parere è particolarmente scorretto proprio rispetto all’etica di uno studioso.
M: Ricapitolando: i modelli degli economisti risultano troppo astratti e sfuggono alla falsificazione della realtà fallendo le previsioni, non spiegano i fenomeni, fanno un uso strumentale-retorico della matematica, non ottengono sostegno empirico. Questi sono marchi tipici della pseudoscienza e l’attività dell’economista può essere secondo lei accostata a quella dell’astrologo che predice il futuro in base a incroci casuali di astri. Nel loro modello tutto funziona alla perfezione, peccato che la realtà non funzioni così. Ci si potrebbe domandare se forse non stiano cercando qualcosa che non c’è, ponendosi le domande sbagliate. Le regolarità della natura che la ricerca scientifica cerca di individuare sono quasi sempre indipendenti dall’attività umana, dalle nostre decisioni, dalla nostra storia. Le regole delle società umane e le relazioni economiche sono invece qualcosa che dipende da noi in modo essenziale, sono il risultato di interazioni e contrattazioni, di una lunga storia tutta umana. Tentare di estrapolare leggi universali utili poi a elaborare schemi predittivi dalla società umana non è paragonabile al tentativo di estrapolare leggi di natura dal gioco del Monopoli?
FSL: Bisogna sempre precisare che stiamo discutendo di quegli economisti neoclassici che usano in maniera infondata scientificamente idee e concetti che sono stati sviluppati magari cinquanta anni fa da studiosi e intellettuali di un certo livello. Le leggi dell’economia, a differenza di quelle naturali, non sono né universali né immutabili. Inoltre, mentre nel caso dei fenomeni naturali non si può intervenire sulle leggi che regolano la loro dinamica, nel caso dell’economia queste leggi sono frutto delle decisioni umane e dunque possono essere cambiate dall’azione politica. Per questo motivo i decisori politici, così come l’opinione pubblica nel suo insieme, dovrebbero essere molto sensibili al tema delle previsioni e alla capacità dei modelli teorici di spiegare la realtà.
Quando si parla di economia, infatti, non è possibile rapportarvisi alla stregua di una disciplina delle scienze naturali, poiché l’oggetto del suo studio è la società con caratteristiche storicamente determinate. Guardare a un «modello» piuttosto che a un altro nell’interpretazione fondamentale dei fatti economici non significa quindi semplicemente introdurre assunzioni alternative rispondenti a uno statuto epistemologico in grado di testarne la validità – così come accade nelle scienze naturali. Piuttosto, significa sposare delle vere e proprie Weltanschauungen diverse, visioni alternative del mondo in cui la componente egemonica della cultura dominante in ogni dato periodo svolge un ruolo determinante. In questo senso è possibile affermare che la genesi della crisi, il suo svolgimento, le possibilità di uscirne e gli effetti sulle economie che la attraversano sono intrinsecamente collegati a un problema di egemonia culturale. Il perdurare delle politiche di austerità, malgrado sia stato ampiamente mostrato che stiano aggravando la crisi piuttosto che mitigarla, è un esempio eclatante di questa situazione. L’origine della crisi è dunque prima che politica, culturale.
M: L’egemonia culturale di cui lei parla si realizza in una vera e propria imposizione di una visione del mondo che viene traslata anche ad altri ambiti della società, dalla politica ai media, dai quali abbiamo sentito ripetere come un mantra che “non esistono alternative”. Lei sostiene che anche la ricerca sembra soffrire, invece che giovarsi, di un’ipercompetitività basata sul “dogma dell’eccellenza” veicolata da questa visione del mondo. Nel suo libro dedica una parte importante al ripensamento del ruolo della ricerca e delle modalità dei finanziamenti a essa assegnati, proprio come strategia di uscita da una visione del mondo dogmatica e al contempo come fucina di nuove soluzioni. Perché l’investimento in ricerca è un passaggio fondamentale per risolvere i problemi di un’economia e di una scienza economica che non godono di buona salute?
FSL: Penso che un investimento in ricerca più solido in un paese come il nostro, ma anche negli altri paesi dell’area mediterranea, rappresenti una condizione necessaria, ma non sufficiente, per iniziare quella lunga e tortuosa via che potrà farci uscire dalle diverse crisi in cui siamo immersi: culturale, politica, economica. Ci dovrebbero essere due chiare priorità: dare la possibilità alle giovani generazioni di avere un ruolo nella ricerca e nella società e scoperchiare il tappo che sta soffocando la ricerca moderna. Si tratta evidentemente, anche in questo caso, di problemi che non hanno solo una dimensione nazionale, ma che hanno anche una caratterizzazione internazionale.
Da una parte la marginalizzazione delle nuove generazioni e la loro progressiva precarizzazione in nome dell’efficienza che scaturirebbe dalla sempre più pressante competizione sono un fenomeno di dimensioni internazionali. Ma sicuramente i paesi dell’Europa del sud, e all’interno di questi le aree geografiche più svantaggiate (che nel nostro paese coincidono con quelle meridionali), sono sicuramente i più colpiti da questo fenomeno: paradossalmente sta avvenendo un soffocamento proprio di quelle energie che dovrebbero fornire le nuove idee e prospettive di cui abbiamo un disperato bisogno.
Dall’altra parte la pressante competizione unita alla scarsità di risorse per la ricerca sta rendendo la gran parte della ricerca accademica una corsa sfrenata al conformismo: una ricerca del consenso sociale invece che una ricerca della verità scientifica. Sappiamo bene però, e la storia ce lo insegna, che le idee innovative provengono molto spesso, se non sempre, da scienziati che intraprendono ricerche che si discostano da quelle che fanno la maggior parte degli altri. Il conformismo sta dunque soffocando la ricerca attuale, e questo è un fenomeno a livello internazionale, anche se nel nostro paese ci mettiamo del nostro con un’agenzia della valutazione che ha introdotto criteri e parametri sconosciuti a livello internazionale e che aggravano questa tendenza.
D’altra parte non vedo altre possibilità per un paese come il nostro. Al contrario di quello che pensa, ad esempio, l’economista Luigi Zinagles, l’Italia non può avere un futuro nel turismo lasciando stare la ricerca nei campi di punta come le bio-tecnologie, anche se ovviamente il turismo è e rimarrà una risorsa importante per il nostro paese. Tuttavia una delle più importanti economie del mondo per rimanere tale deve puntare a una specializzazione produttiva in cui la conoscenza, e cioè la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, giochi un ruolo chiave. Per far sì che questo avvenga, data la struttura del nostro sistema produttivo dominato da piccole e medie imprese che non investono in ricerca e innovazione, c’è bisogno che lo stato faccia uno sforzo d’investimenti di una certa dimensione. Ricordiamoci che negli Stati Uniti la mano visibile del mercato è operativa grazie a un investimento di 40 miliardi di dollari all’anno in ricerca fondamentale, investimento che ha rappresentato il traino per lo sviluppo tecnologico e scientifico di quel paese. Solo nei paesi periferici si sente parlare di puntare sul turismo e lasciar perdere l’università e la ricerca: un’altra prova, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’impreparazione tecnica di questo genere di economisti e del ruolo politico deleterio che svolgono.
M: I finanziamenti alla ricerca di base dovrebbero essere fondamentali per diversificare la ricerca e sottrarla al conformismo accademico. Ma a dispetto di ciò il maxi finanziamento europeo allo Human Brain Project[3]è stato un esempio, per altro molto criticato dalla stessa comunità scientifica, di “big science” calata dall’alto, che impone una linea di ricerca troppo rigida su un tema, la comprensione del cervello umano, che ha bisogno quanto mai di pluralità di vedute. In Italia lo Human Technopole che sorgerà sulle ceneri di EXPO riceverà un finanziamento di un miliardo e mezzo di euro nei prossimi 10 anni, mentre i Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) prevedono la spartizione di 92 milioni di euro per progetti triennali provenienti da tutte le aree scientifico-disciplinari. Perché la classe dirigente attuale si aspetta che questa sia una strategia vincente, mentre lei nel suo libro argomenta nella direzione opposta?
FSL: Purtroppo l’egemonia culturale che abbiamo visto essere presente nell’economia ha percolato in tutta la società e specialmente tra le classi dirigenti che si accontentano di ricette superficiali e ideologiche, potremmo dire mitologiche, sul funzionamento della ricerca e dell’istruzione superiore. Ormai per gli stati la panacea di tutti i problemi, nel campo dell’istruzione superiore e della ricerca, è l’aspirazione ad avere l’università di Harvard nel proprio territorio: quello che chiamo il “modello Harvard here”. Come se questa fosse la soluzione a tutti i problemi e come se bastasse avere una o qualche università nelle prime cento posizioni al mondo per trasmettere conoscenza e capacità a tutto il sistema. Questa è una visione ideologica che si rifà alla trickle down economics (economia dell’”effetto sgocciolamento”) e di cui abbiamo già visto gli effetti nella società: accentramento della ricchezza in una piccola élite e impoverimento progressivo di tutto il resto della popolazione.
Quello che sottende questo modello è una pianificazione top-down per poter sviluppare ricerca e didattica di alto livello. In realtà questo modello iper-competitivo somiglia ogni giorno di più al tanto vituperato modello centralizzato di sovietica memoria in cui lo stato cercava di programmare come, quando e perché la ricerca dovesse essere svolta. La spinta per questo tipo di politica è di nuovo una ignoranza strutturale su come funziona la ricerca in realtà: la diversificazione invece che l’accentramento è la chiave per lo sviluppo di un sistema di ricerca innovativo. Questo è il risultato che si può osservare essersi realizzato nei maggiori paesi industrializzati. D’altro canto la canalizzazione dei fondi di ricerca su determinati temi sta soffocando l’innovazione: la storia della scienza, infatti, ci insegna che non è la competizione tra i singoli ma la competizione tra le idee e tra i progetti di ricerca alternativi la spinta propulsiva del progresso scientifico e tecnologico. Inoltre questa tendenza permette un controllo politico sui temi della ricerca: questo è il caso dei campi più vicini a interessi immediati politici ed economici. Nel nostro paese, per fare un esempio, gli esperti valutatori per l’area economica erano anche membri, per la maggior parte, di un partito politico (Fermare il Declino, il cui leader era Oscar Giannino): un caso allarmante ed evidente di ingerenza della politica nella scienza e nella ricerca.
M: Gli atenei sono diventati, lei scrive, specchio della disuguaglianza economica e sociale del paese. Pochi virtuosi ottengono i finanziamenti di merito e molti rimangono a bocca asciutta. In questo ci vede anche una colpa dei metodi di valutazione del “merito” (vedi VQR – Valutazione della Qualità della Ricerca) che contribuiscono a beneficiare chi già appartiene a un élite ristretta? Come si potrebbe arrivare alternativamente a una ricerca più cooperativa e meno competitiva?
FSL: Ci sono varie questioni che s’intrecciano: (1) la parte premiale del fondo di finanziamento ordinario è un nome di orwelliana memoria. Non c’è alcun fondo premiale, c’è il fondo ordinario decurtato del 20% rispetto al 2008. Una parte di questo fondo è chiamato premiale, ma appunto non è un nome corretto perché la parola premio fa immaginare qualcosa in più. Invece si tratta di qualcosa che è molto meno per molti e qualcosa poco in meno per pochi altri. Tutti gli atenei hanno subìto un taglio delle risorse (in una situazione in cui il finanziamento già non era al pari dei paesi con cui vorremmo competere), ma molti l’hanno subìta più di altri. In questa situazione la valutazione è stata usata come uno strumento per drenare risorse ad alcuni atenei, in particolare quelli del centro sud, per trasferirli agli atenei del centro nord. (2) I criteri e le modalità con cui è stata fatta la ripartizione del fondo premiale della VQR sono da una parte completamente arbitrari, cioè non corrispondono affatto alla “misura” della “qualità” della ricerca, e dall’altra non trovano riscontro in alcun altro esercizio di valutazione nazionale effettuato sul pianeta Terra. (3) Nel Regno Unito, ad esempio, non si mettono in competizione per risorse scarse le università della Scozia con Oxford e Cambridge ma si è diviso il paese in tre macroregioni per non creare degli squilibri geografici, come sta invece accadendo da noi. Per fare un esempio le università della Sardegna sono vicine alla chiusura: ha senso chiudere delle università? (4) La VQR è un esempio di governo attraverso i numeri: la politica scientifica e dell’istruzione superiore in un paese avanzato non può essere fatta in questo modo e soprattutto non può essere lasciata nelle mani di gente incompetente che la interpreta in questo modo. (5) Per quanto mi riguarda prima di spendere circa 200 milioni di euro per fare la VQR mi chiederei se ad esempio nel Regno Unito, dove si fa da una trentina d’anni, un esercizio di valutazione di questo tipo ha aumentato la qualità della ricerca. La mia risposta, da quello che ho letto nella letteratura, è negativa. (6) La risposta alla vostra domanda “Come si potrebbe arrivare alternativamente a una ricerca più cooperativa e meno competitiva?” è semplice: distribuire risorse attraverso progetti a chi è capace di proporre idee innovative. Dunque è necessario aprire bandi con finanziamenti piccoli, medi e grandi. Bandi che abbiano scadenze annuali, o anche semestrali, e in cui i tassi di accettazione si aggirino intorno al 30% almeno. Invece di spendere 200 milioni in un esercizio di valutazione che non solo è inutile ma è pure dannoso, in quanto premia chi è già premiato e continua a perturbare l’oggetto di valutazione, cioè il ricercatore, con criteri senza senso. Bisogna finanziare progetti di diversa natura lasciando ampi spazi ai giovani. È necessario cambiare tutto nella gestione della ricerca che si è creata negli ultimi vent’anni perché è tutto profondamente sbagliato.
M: Tuttavia, ad essere realisti, non si può negare che non tutti i ricercatori e docenti producono la stessa qualità di ricerca: un qualche parametro trasversale di valutazione va trovato. Vi è una parte propositiva nel suo libro? In altri termini, anche il bando diversificato con un 30% di esiti positivi richiede una selezione e una valutazione, ma di che tipo? Solo a priori o anche a posteriori per verificare come sono stati impiegati i soldi pubblici?
FSL: Nel mio libro discuto il problema del finanziamento ai progetti. In genere ci si concentra esclusivamente sull’idea di rendere la ricerca più conveniente ritirando i fondi ai «cattivi ricercatori» per darli piuttosto ai «buoni ricercatori». Non ci si preoccupa della possibilità di fare un errore di questo tipo: ritirare i finanziamenti ai ricercatori che avrebbero compiuto importanti progressi se la loro ricerca fosse stata sostenuta. Una delle idee che mi sembrano interessanti da considerare per alleviare il problema, e che da poco ha avuto risonanza anche su riviste di una certa notorietà, riguarda l’introduzione di un po’ di casualità nel processo di selezione. Un po’ di rumore può aiutare a dirottare i fondi di ricerca verso progetti che non siano troppo conformisti: in fin dei conti è una storia nota, e anche nella scelta del Doge di Venezia si adottava un criterio che introduceva un po’ di casualità per non scegliere sempre i rampolli delle solite famiglie
Per quanto riguarda la valutazione dell’operato dei ricercatori e dei docenti la situazione è diversa. Innanzitutto bisogna sempre tener conto di due punti: (1) il compito di un docente universitario non è solo far ricerca e (2) le aree più problematiche sono quelle contigue alle professioni. Per quanto riguarda il primo punto, malgrado sia ovvio, molto spesso viene dimenticato: nell’università è importante la didattica oltre che la ricerca. La valutazione della didattica è molto più difficoltosa, ma questo non è un buon motivo per ignorarla come viene fatto ora: il filosofo della scienza Donald Gillies nel suo interessante libro “How should research be organzied” ha proposto con un certo dettaglio un sistema di valutazione che consideri la didattica e non soffochi l’innovazione. Per quanto riguarda il secondo punto è del tutto chiaro che le aree in cui ci sono fenomeni più frequenti di malcostume sono quelle in cui l’attività accademica e quella professionale sono molto vicine, e in cui l’una supporta l’altra. Per questo basterebbe intervenire in maniera semplice a partire da un monitoraggio degli incarichi e dalle entrare extra universitarie. In ogni caso un discorso serio sulla valutazione si può fare solo in presenza di risorse e non in una situazione di radicale riduzione di queste.
M: Il quadro che viene a dipingersi pare piuttosto cupo visti i tanti effetti collaterali dei modelli “platonici” degli economisti sulle istituzioni e sulla qualità della vita dei cittadini, inoltre i politici non sembrano ben predisposti ad alcuna epifania su tali questioni. Lei cita nel suo libro un articolo di Jean Philippe Bouchaud, datato al 2008 e pubblicato su Nature, che invoca una rivoluzione scientifica per l’economia. Isaac Asimov ne “il ciclo della fondazione” aveva inventato una scienza statistica immaginaria, la psicostoria (un misto di psicoanalisi e teoria dei giochi), in grado di prevedere l’evoluzione della società umana. Possiamo usarla come analogia per domandarle quanto distanti siano eventuali programmi di ricerca odierni in economia, magari bollati come eretici dai neoclassici, da quell’ideale conoscitivo auspicato e realizzato nelle storie di Asimov.
FSL: A mio parere il problema è il seguente. Chi maneggia gli strumenti della fisica moderna si rende facilmente conto che il concetto di equilibrio è usato in economia come era usato in fisica alla fine dell’Ottocento. C’è un secolo di studi e di scoperte che è lasciato fuori dalla teoria fondamentale. Il fatto che gli economisti neoclassici credano che il problema economico si possa risolvere attraverso un teorema matematico, a un fisico fa tenerezza. I fisici sono abituati a ragionare in termini di ordini di grandezza, mentre gli economisti subiscono un insegnamento eccessivamente formale e dogmatico. Ma il problema di fondo rimane un problema politico e di questo sono consci gli economisti che al momento passano per “eterodossi”: la discussione e il confronto tra approcci differenti sono sicuramente la linfa vitale per un campo come l’economia. Ma al momento gli eterodossi sono trattati come i dissidenti dei regimi totalitari.
Ad esempio, come ha scritto Paul Krugman, malgrado il fatto che le previsioni della posizione pro austerità siano state smentite dai dati empirici, la teoria a favore dell’austerità ha rafforzato la sua presa sull’élite proprio in quanto il programma dell’austerity avvantaggia la posizione dei ceti abbienti: «ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare».
Dunque il problema è al contempo politico e culturale: bisogna agire su entrambi i fronti, ma a mio parere il campo culturale è al momento quello più interessante, dove davvero si possono cambiare le cose. La politica non potrà che seguire gli avvenimenti.
M: Un ultimo punto. L’egemonia culturale imposta da questo paradigma economico ha intaccato anche la nostra idea di benessere, definito solo in relazione alla crescita del PIL nazionale: la massimizzazione del profitto è identificata con il benessere. Per non parlare dell’impatto ambientale della crescita: nessuna norma che mira a riequilibrare il mercato può riequilibrare la perdita di biodiversità, dovuta ad esempio a deforestazione o inquinamento industriale. I futuri modelli economici non dovrebbero mirare a ridefinire l’idea di benessere collettivo?
FSL: Sicuramente! La crescita e lo sviluppo sono due cose diverse. Il PIL può crescere fabbricando mine antiuomo e lo sviluppo può avvenire aumentando il tasso di scolarizzazione inferiore o superiore, cosa che non rientra nel computo del PIL. La misura quantitativa di per sé non riesce a cogliere la realtà nella sua complessità e si focalizza solo su qualche suo aspetto molto parziale e vagamente connesso con ciò che si vorrebbe misurare: questo è un problema ricorrente nelle misure pseudo-quantitative che si sono molto diffuse in ogni campo dell’attività umana proprio per la volontà di dare un valore a qualsiasi cosa. Basti pensare che, ad esempio, oggi gli articoli scientifici si chiamano prodotti!
In realtà la risorsa fondamentale di ogni paese non è tanto il PIL, che può aumentare semplicemente vendendo risorse naturali per i paesi che le possiedono, ma è la diversificazione della sua struttura produttiva e del suo sistema di ricerca. E’ questa diversificazione che determina la potenzialità di sviluppo. In ultima analisi, questa è legata allo sviluppo infrastrutturale materiale e di conoscenze di ogni paese, che è rappresentato dall’insieme delle capacità produttive, delle materie prime, del livello d’istruzione medio, della qualità dell’istruzione avanzata e del sistema della ricerca di base, delle politiche del lavoro, della capacità di trasferimento tecnologico dall’accademia al sistema produttivo, del livello di welfare sociale, di una burocrazia e di un sistema di leggi efficienti. In pratica, da tutto ciò che concorre a creare un ambiente adatto allo sviluppo economico e civile. I beni si possono importare o esportare, mentre queste capacità sono intrinseche a ogni paese.
In breve, una risorsa fondamentale di ogni paese è determinata dalla complessità della sua struttura produttiva e della conoscenza; lo sforzo per lo sviluppo dovrebbe essere indirizzato a generare le condizioni che permettono l’emergenza della complessità per produrre crescita e prosperità. Lo sviluppo economico aumenta le capabilities di un paese e dunque anche il suo grado di sviluppo civile: questo permette, a sua volta, di favorire l’innovazione, che fornisce un vigoroso impulso allo sviluppo economico. Questo circolo tra sviluppo economico e sviluppo civile rende possibile non solo la crescita del PIL, ma lo sviluppo vero e proprio di un paese.
Slides del seminario di presentazione del libro “Rischio e Previsioni”
NOTE
[1] https://francescosyloslabini.info/about/ , https://www.roars.it/online/
[2] Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione – cosa può dirci la scienza sulla crisi, Laterza, Roma-Bari 2016.
[3]Per approfondimenti si veda https://www.unipd.it/ilbo/content/mappatu…
(20 giugno 2016)