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Corriere: «Volevo sospendere un mio studente La mamma mi ha detto: si vergogni»

L'altro giorno un allievo mi ha chiesto che ci stiamo a fare noi docenti nell'era di Internet. È vero, il nostro ruolo è cambiato

26/03/2007
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Corriere della sera

Milano, Franco Camisasca: a volte mi sento ferito, ma vale la pena insegnare

«Mi ascolti bene: nel 1972 e dintorni, io facevo lezione che sembravo un robot. Ero costretto a guardare un punto fisso sulla parete in fondo all'aula. Non potevo voltarmi verso nessuno dei miei ragazzi, perché la classe era divisa tra rossi e neri, e nei banchi centrali, a fare da cuscinetto, c'era un drappello di Comunione e Liberazione. Se per sbaglio mi rivolgevo a un alunno qualunque, a seconda del mio torcicollo diventavo comunista o fascista, e per loro anche l'occhiata di un professore era un motivo per sprangarsi all'uscita da scuola, casomai ci fosse stato ulteriore bisogno di un pretesto per farlo».
Franco Camisasca è uno di quei professori che nessuno si ricorda quando sono arrivati. A forza di esserci, diventano una sorta di genius loci, piccole leggende scolastiche che si tramandano da maturando a «primino». Quando uno entra nell'atrio del Liceo scientifico Torricelli e lo vede sul primo gradino delle scale che portano alle aule, aria paciosa da buon cattolico, la grisaglia grigia, occhi limpidi, capelli bianchi, una mano appoggiata alla ringhiera, ha davvero la sensazione che ci sia sempre stato. Un monumento vivente a un'idea umanistica dell'insegnamento e alla scuola nella quale vive da 26 anni, dato gentilmente fornito da lui, essendo l'unico a poterlo sapere. «Mi chiede se ne è valsa la pena? L'altro giorno sono salito sul 15, il tram che mi porta al Torricelli, e ho incontrato un mio ex allievo. Mi ha raccontato del suo lavoro, della sua famiglia, abbiamo scherzato. Sembrava che fosse appena finito l'esame di maturità. E invece sono passati almeno tre lustri».
A scuola ha trascorso anni felici, il professor Camisasca. Ha vissuto intensamente la sua esperienza, ha scritto opere di didattica, partecipato a seminari, presentato relazioni. Si è speso. Adesso che ha varcato la linea d'ombra del suo amato Conrad e l'età della pensione è a un passo, riflette sempre più spesso su quel che è stato e quel che dovrebbe essere. «Io non credo che i ragazzi e le famiglie di oggi siano le peggiori di sempre, come sostengono alcuni miei colleghi. Sono diverse da quelle che le hanno precedute, tutto qui. Non è che insegnare negli anni Settanta fosse una passeggiata».
Quelli della sua generazione se ne stanno andando tutti in pensione. I dati del ministero della Pubblica istruzione registrano un'impennata di insegnanti che, potendo farlo, approfittando dello scalone, scelgono di dedicarsi ai nipoti piuttosto che agli allievi. È un fenomeno marginale, che riflette però il disamore che è ormai entrato sottopelle a molti docenti. Perché si tratta di una classe di professori che alla missione implicita del mestiere ci ha davvero creduto. Seduto alla sua cattedra alla fine di un sabato di lezioni, Camisasca annuisce mentre ascolta la storia di una collega come Carla Pratella, 58 anni, 34 dei quali passati nel casermone dell'Istituto tecnico Aldini, un'istituzione bolognese. Ha scelto di andarsene «per senso di solitudine e scoraggiamento nei confronti di una professione che non è più un punto di riferimento educativo». La scuola di oggi è vista dai professori «anziani» come un Eden perduto, nel rimpianto di un'epoca neppure troppo lontana, dove c'erano il 7 in condotta, si rimandava a settembre, e l'insegnante era l'unico dispensatore di sapere, con gli strumenti e l'autorità per indirizzare la vita di chi sedeva ai banchi. «Mi riconosco, in questa disillusione. Siamo stati costantemente depotenziati. Prenda ad esempio gli esami di riparazione: li hanno sostituiti con i "debiti", che si possono saldare con comodo ad aprile, quando è chiaro che nessuno boccerà più per i "peccati" commessi nell'anno precedente. Non funziona, ma è anche impossibile tornare indietro».
Intorno ai suoi anni qui dentro è cambiato tutto, compreso il paesaggio. Quando ha cominciato, dall'ultimo piano del Torricelli si riuscivano ancora a vedere gli ultimi orti dei contadini e le marcite, e Gratosoglio era il nome del capolinea del 15 e di un quartiere che i milanesi del centro consideravano sinonimo di periferia ignota e pericolosa. Oggi da quella finestra si vede poco, i palazzi residenziali si sono moltiplicati, il Gratosoglio è dentro la città. Camisasca dice che anche la scuola è l'esatta fotografia dei mutamenti di quel che le sta intorno. «Sono reduce da un consiglio di classe nel quale alcuni docenti, me compreso, avevano proposto la sospensione di un alunno. Non dico cosa, ma l'aveva fatta veramente grossa. Parte il confronto, si sceglie una pena più mite, qualche pomeriggio di lavori socialmente utili, ovvero le pulizie nel cortile. Convochiamo i genitori, e la madre, in tono solenne, mi dice che devo vergognarmi, che "i nostri figli non si processano", manco fossero la Democrazia cristiana del povero Aldo Moro. E così sia».
Ma il mestiere, quello rimane. Anche se è diventato più difficile, e meno gratificante. «Credo che il rimpicciolimento della nostra identità sia cominciato con il '68. Quel che era autorità andava buttato, anche in un mestiere che dell'autorità ha estremo bisogno. Poi, soffriamo da sempre di un centralismo e di uno statalismo spaventoso, che ci ha donato un'autonomia solo formale. E infine ci sono i sindacati, che per gestire dei cambiamenti che altrimenti non riuscirebbero a controllare, ci hanno fatto diventare dei burocrati». L'altro giorno un suo allievo gli ha chiesto se ha ancora senso studiare Manzoni nel 2007. A lui, che sull'Innominato ha scritto persino un saggio. Assolutamente sì, è stata la risposta. E il compagno di banco ci è andato ancora più pesante: con Internet, voi professori che ci state a fare? «Ma le domande erano entrambe buone. La nostra ragion d'essere è cambiata. Il sapere, la cultura, sono fuori, in rete, ovunque. Noi dobbiamo spiegare che cosa farne, fornire un criterio per l'uso di questa massa di informazioni che travolgono i ragazzi. E in questo, anche Manzoni può ancora essere utile».
I ragazzi di oggi non saranno peggio di quelli che li hanno preceduti, ma sicuramente sono più inafferrabili, misteriosi, per chi non ha la loro età. Il professore confessa di emozionarsi ogni volta che uno dei suoi alunni spiega una poesia di Leopardi «e io capisco che tramite Silvia o il pastore errante dell'Asia mi sta in realtà raccontando se stesso». Ma ammette che il suo ricordo più amaro è molto recente. Uno studente che entra tardi in classe, «con uno sguardo che non sono mai riuscito a definire», e come giustificazione gli racconta che la sera prima gli è morto il padre. «Me lo ha detto in un modo inerte, senza emozioni, come se raccontasse un fatto da esorcizzare al più presto, allontanandolo da sé. Mi sento ferito quando non capisco un gesto, o una frase. E purtroppo capita sempre più spesso». Provarci, almeno. Cercare di comprendere il mondo nel quale è trascorsa la propria vita. Camisasca sta preparando uno studio sul disagio dei docenti, quando arriverà la pensione si dedicherà maggiormente alla didattica. «Però mi creda: ne è valsa davvero la pena. E mi mancherà. Certo, è frustrante accorgersi che certe volte non vieni capito. Ma ancora oggi torno a casa, mi siedo al tavolo del salotto, riguardo gli appunti della lezione "incompresa" e il giorno dopo cerco di ricominciare da capo. Perché a scuola, se non hai la speranza non sei niente».
Marco Imarisio
LO STUDIO DI MANZONI
Negli anni Settanta non era una passeggiata.
Facevo lezione fissando la parete in una classe spaccata tra rossi e neri


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