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Corriere: Università, sotto i 35 anni solo nove docenti su 18.651

I giovani sono lo 0,05%. I «cervelli»? Qualcuno torna, ma gli atenei non se ne accorgono

09/01/2007
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Corriere della sera

di SERGIO RIZZO e GIAN ANTONIO STELLA

ROMA - Buon per lui che non la ingoiò, Paolo De Coppi, l'esca messa all'amo della leggina «Rientro dei cervelli». Peggio per l'Italia e buon per lui che se ne restò all'estero, a studiare le cellule staminali fino alla clamorosa scoperta finita ieri sulle prime pagine di tutto il mondo. Quelli che tornarono, adescati dalla prospettiva di entrare nelle università superando barricate burocratiche, trincee baronali e ragnatele sindacali, si ritrovano infatti a rimpiangere il posto perduto in America, Olanda o Germania e a fare i conti con le solite vecchie regolette corporative di un sistema abnorme. Dove due numeri dicono tutto: su 18.651 docenti di ruolo, quelli con meno di 35 anni (l’età di De Coppi) sono 9: lo zero virgola zero cinque per cento. Al contrario, quelli con più di 65 anni sono 5.647: il 30,3%.
Eppure lo sanno, quelli che governano il mondo universitario. Sanno che Enrico Fermi prese il premio Nobel a 37 anni, Renzo Piano progettò il Beaubourg a 34, Federico Faggin inventò il microchip a 30, Bill Gates fondò la Microsoft a 30, Larry Page e Sergei Brin sbaragliarono i colossi di Internet con Google quando ne avevano solo 25. E insomma sanno che l’esperienza è fondamentale e la saggezza è un dono dell’età e magari possono pure invocare Giuseppe Tomasi di Lampedusa che pubblicò Il gattopardo quando era anzianotto ma per certe cose, soprattutto nei campi della scienza, c’è un’età dell’oro. Ed è quella che certi giovani geni italiani, se non se ne vanno prima, passano in coda alla porta di questo o quel barone sperando che venga loro lanciato un tozzo di contrattino da poche centinaia di euro.
I numeri del ministero (ufficiali e aggiornati al primo gennaio 2007 e dati al Corriere sulla base dei codici fiscali) sono lì, impietosi. E dicono che negli ultimi 22 anni i docenti di ruolo negli atenei statali sono più che raddoppiati: da 8.454 del 1985 ai 18.651 di cui dicevamo. Solo che la moltiplicazione delle cattedre non ha visto affatto in prima fila i giovani. Le «torte» statistiche che pubblichiamo, riprese da un intervento degli studiosi Stefano Zapperi e Francesco Sylos Labini e aggiornate per la parte italiana coi dati d’oggi, dicono che contro il nostro umiliante 0,05% i cattedratici sotto i 35 anni sono il 7,3% in America, l’11,6% in Francia, il 16% nel Regno Unito. E che al contrario gli anziani oltre i 65 anni scendono al 5,4% in America, all’1,3% in Francia, all’1% in Inghilterra. Onestamente: è mai possibile che la fascia più numerosa degli «ordinari» italiani (1.048 persone) abbia 60 anni e cioè due più dell’età media dei rottami umani ancora nostalgicamente iscritti al partito comunista russo? E fossero solo i cattedratici! Pare impossibile ma tra i 18.150 associati, gente comunemente associata (scusate il gioco di parole) a chi è in carriera e aspetta di passare di ruolo, la fascia di età più affollata è la stessa: 60 anni. Quelli che hanno già spento la 65? candelina sono 1.758. Cioè 683 in più degli under 40. Quanto ai 21.639 ricercatori, le cose vanno meglio. Ma certo non al livello dei Paesi più avanzati.
Un problema scientifico o culturale. Ma non solo. Basti dire che, stando al rapporto sullo stato dell’Università, la spesa per il personale non docente, calcolata l’inflazione, è leggermente calata (un miliardo 851 milioni di euro) così come sono calati del 10,8% i soldi sborsati per i beni durevoli, cioè gli investimenti. Ma il personale docente nel 2004 (oggi la cifra si è ulteriormente impennata) è costato 4 miliardi e 495 milioni di euro, con un aumento reale sul 2001 del 9,3%.
E meno male che sui conti non gravano più i politici. In Parlamento, tra ricercatori, associati e ordinari (solo Prodi e Gerardo Bianco si dichiarano «in pensione», altri se la cavano con formule più o meno ambigue) ce ne sono 93: un decimo di deputati e senatori. Dal 31 marzo 1993 non possono più incassare il doppio stipendio. Ma degli antichi privilegi che i baroni-parlamentari si erano concessi qualcosa resta: la possibilità, per i docenti più anziani, di andare fuori ruolo, continuando a incassare lo stipendio e a risultare a carico del sistema universitario ma senza più l’obbligo di fare una sola ora di lezione o di ricerca. Una regalia feudale via via modificata nella soglia di accesso finché la Moratti (evviva) l’ha abolita. Per il futuro, però. Intanto, riceveranno ancora lo stipendio (150 mila euro lordi gli ordinari, 110 mila gli associati) la bellezza di 1.012 «fuori ruolo» nel 2007, 1.372 nel 2008 e 1.888 nel 2009.
In questo contesto (aggravato da una litania di scandali di concorsi pilotati e baroni che lasciano in eredità la cattedra ai figli o ai nipoti come fosse un comò fino al caso estremo di Bari dove in un corridoio tutti i docenti avevano lo stesso cognome) cosa fareste nei panni di un giovane che vuole insegnare o fare ricerca? A migliaia hanno risposto: via! Finché alla fine di gennaio del 2001 il governo Amato varò il programma «Rientro dei Cervelli». Che, tentando per la prima volta di arginare la fuga di tanti studiosi sparsi in mezzo mondo, offriva agli esuli di rientrare con un contratto (a tempo pieno) iniziale di tre anni in cui lo Stato si faceva carico dello stipendio e per il 90% di un progetto di ricerca proposto dal candidato.
Il governo di centrodestra confermò e rilanciò. Scrivendo a chiare lettere, nei decreti successivi del 2003 e del 2005, che l’obiettivo era offrire «ai giovani ricercatori italiani impegnati all’estero, l’opportunità di un definitivo rientro nel proprio paese». Chiaro? «Definitivo». Questo era l’impegno preso dall’Italia con gli italiani che avevano lasciato posti spesso di grande prestigio e grandi stipendi: l’offerta di avere un posto «de-fi-ni-ti-vo» senza che si andassero a infognare nelle beghe bottegare di certi atenei. Un impegno che la Moratti ribadì ancora il 10 maggio scorso, spiegando che dopo «l’inserimento in Italia con contratti a termine di oltre 460 studiosi, è stata data quest’anno priorità alla loro stabilizzazione».
Sapete com’è finita? Che l’ambizioso programma, costato 52 milioni, si è infranto contro mille distinguo, mille cavilli burocratici, mille intralci procedurali. Tizio, Caio e Sempronio sono dei genii? Sarà. Ma bisogna vedere anche se tutti i moduli sono a posto, quanto vale in Italia la qualifica che avevano in America e poi i titoli e le carte e i timbri… Risultato: dei 460 faticosamente riportati in Italia, finora sarebbero stati richiesti ufficialmente dagli atenei italiani solo in una cinquantina e avrebbero superato le forche caudine del Cun (Consiglio universitario nazionale) solo in dieci. E il bello è che non possono manco tentar la carta dei concorsi: sono bloccati dal 2003 in attesa delle nuove regole. Auguri. O good bye ...

Sergio Rizzo


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