Corriere: Severi con i piccoli: «un aiuto» o «una sconfitta»
Educatori divisi. Affinati: giusto porre un limite. Bollea: così i bimbi perdono se stessi
La nuova linea commentata da professori, scrittori e psichiatri
ROMA — «Quando un insegnante boccia, alla fine boccia se stesso. Significa che non si è riusciti a raggiungere l’obiettivo giusto col proprio lavoro», dice Domenico Starnone, per anni insegnante, scrittore di vicende scolastiche («Ex cattedra », «Fuori registro», premio Strega 2001). Il «ritorno alla severità», visibile nelle statistiche, riguarda soprattutto gli studenti più piccoli: scuole elementari e medie. Ma il ripristino dei metodi più rigidi, applicato all’ultima generazione, è giusto o non è giusto? Ancora Starnone: «C’è indubbiamente un fatto nuovo, l’aumento delle bocciature nelle elementari e nelle medie. Proprio le medie, negli ultimi vent’anni si sono trasformate in momenti didattici particolarmente difficili. Gli insegnanti fanno molta fatica: non mi meraviglia se lì aumenta la tendenza a 'risolvere' i problemi bocciando. Ma lo scopo della scuola dell’obbligo non dovrebbe essere bocciare ma di far sì che l’istruzione obbligatoria sia attuata per tutti».
Morale? «Bocciando non si sana niente. L’alternanza tra durezza e lassismo produce vittime in un unico campo, quello dei ragazzi, inevitabilmente di questa generazione. Soprattutto mi sembra grave un metodo che vedo praticare. Cioè svegliarsi la mattina prima degli scrutini, dopo un’annata di lassismo, e dire: attenzione, cari bambini, adesso saremo severissimi. Soprattutto con i più piccoli, non si può fare così. In buona sostanza, l’intera scuola andrebbe ripensata in funzione dell’idea che una bocciatura è solo un mezzo estremo»».
Aggiunge Simonetta Salacone, dirigente scolastica della scuola elementare romana «Iqbal Masih», animatrice dei Coordinamenti «Non rubateci il futuro» contro i tagli alla scuola: «Prima di arrivare alle bocciature, noi ci pensiamo migliaia di volte. Dunque riteniamo assurdo che qualsiasi disposizione ministeriale centralistica ci obblighi a semplificare una valutazione sui bambini da compiere, invece, caso per caso. Il giudizio finale, soprattutto per i bambini e i ragazzi più piccoli, non può essere una semplice somma ma solo il 'precipitato' di una serie di fattori ». Però ci sono casi di bullismo, di violenza... «Molto, troppo spesso quelle manifestazioni sono i sintomi di forti insicurezze, di incapacità comunicative, di altre violenze magari subite in ambiente domestico. Compito della scuola è comprendere. Non cavarsela allontanando. Per questa ragione il discorso del ministro Giorgia Meloni mi sembra particolarmente sottoscrivibile. Non dobbiamo eliminare i più fragili, ma al contrario supportarli e non destinarli all’emarginazione, all’impossibilità di un recupero».
Diversa l’opinione di Eraldo Affinati, scrittore e insegnante alla «Città dei ragazzi » vicino Roma: «Il ritorno alla severità nei giudizi finali alle scuole elementari e medie può incarnare il bisogno di porre un limite, un richiamo rispetto a una indisciplina spesso non 'comprensibile' dagli insegnanti». Giusto o non giusto, quel metodo? «Entro certi limiti penso sia giusto. Ma non bisogna parlare di 'autorità' quanto di 'autorevolezza'. Perché un vero insegnante dovrebbe instaurare un rapporto affettivo con i ragazzi proprio per raggiungere obiettivi non percepiti come traguardi amministrativi ma come momento di crescita. E l’insegnante dovrebbe sapersi sporcare le mani...».
E cosa dice un ex Grande Professore come Alberto Asor Rosa, fino al 1964 insegnante alle scuole medie e poi celebre docente universitario? «La bocciatura dovrebbe essere un fatto di natura eccezionale. Se diventa metodo di formazione pedagogica, allora siamo in piena reazione ». Ovvero? «Ovvero credo che nell’attuale situazione, il nodo non sia garantire un certo rigore nella valutazione quanto l’atto del bocciare come manifestazione di rigore.In questo caso siamo messi male ».
Ma Giovanni Bollea, classe 1913, padre della moderna neuropsichiatria infantile italiana (fondò l’Istituto di via Sabelli), ancora lucidissimo analista della nostra contemporaneità, è di parere drammaticamente diverso: «Attenzione. Una bocciatura, soprattutto per un bambino delle elementari o delle medie, si traduce in un elemento di perdita di sé. Ma soprattutto di perdita, anzi di 'caduta' dell’adulto, in questo caso l’insegnante, rispetto al progetto che si era dato. E questo conduce alla sottostima del metodo prescelto, quindi impone una doverosa autocritica. Un’autocritica da estendere, da parte degli adulti, soprattutto nei metodi di formazione e preparazione degli insegnanti. Dopo ogni bocciatura di un bambino dovremmo chiederci: dove abbiamo sbagliato quando abbiamo messo in cattedra quell’insegnante?».
Paolo Conti