Corriere: Sesso, razza, velocità: la segregazione silenziosa della scuola americana
la segregazione dei sistemi formativi — basata non più su scelte di tipo razziale, ma soprattutto su esigenze di rendimento e difficoltà di tipo linguistico — è di nuovo una realtà diffusa nella società americana che la politica fatica a gestire.
VISTI DA LONTANO
Q ualche settimana fa la Corte federale dell'Arkansas ha deciso che non è più necessario tenere sotto sorveglianza il distretto scolastico centrale di Little Rock, quello scelto cinquant'anni fa dal governo di Washington per l'affondo finale contro la segregazione razziale nelle scuole. La ferita del 1957, quando il presidente Eisenhower fece entrare un drappello di alunni di colore nelle classi delle scuole bianche scortati dai soldati dell'esercito, è stata dichiarata ufficialmente rimarginata. Eppure oggi la segregazione dei sistemi formativi — basata non più su scelte di tipo razziale, ma soprattutto su esigenze di rendimento e difficoltà di tipo linguistico — è di nuovo una realtà diffusa nella società americana che la politica fatica a gestire.
Non è questione di destra o sinistra: oggi il principale difensore di «No child left behind», il piano scolastico di Bush, è Ted Kennedy, il capo della sinistra democratica, mentre i repubblicani non vedono l'ora di liberarsi di una politica che considerano troppo ingombrante. Lo stesso nelle comunità: quelle che si trincerano in una scuola o in un distretto scolastico, in genere lo fanno non per scelta ideologica, ma perché pensano che solo così i loro figli otterranno risultati accademici eccellenti, quelli necessari per affermarsi in un mercato del lavoro sempre più competitivo. In un ambiente multilinguistico, ad esempio, chi non ha imparato l'inglese come prima lingua (in genere i figli degli immigrati ispanici) o resta emarginato, o costringe il resto della classe ad andare avanti più lentamente. Sono problemi che ormai abbiamo imparato a conoscere anche in Italia, ma che negli Stati Uniti della moltiplicazione delle etnie e della rapida ispanizzazione hanno assunto dimensioni un tempo inimmaginabili: il rapporto bianchi- neri è ormai solo un aspetto. In California ci sono addirittura classi popolate da ragazzi asiatici nelle quali la presenza di una minoranza bianca rallenta l'apprendimento della matematica e delle altre discipline scientifiche.
Negli ultimi tempi si è poi accentuata la tendenza, anche tra le famiglie colte della sinistra «liberal», a separare, a scuola, i figli maschi dalle femmine sulla base di indicazioni pedagogiche (le rivalità tra sessi danneggerebbero il rendimento) e di ricerche scientifiche secondo le quali nel cervello dei bambini e delle bambine i meccanismi di apprendimento funzionano in modo diverso. Un «trend» talmente diffuso nei migliori istituti privati che nell'autunno scorso il governo di Washington ha deciso di facilitare la formazione di classi separate anche nella scuola pubblica: era vietato dal '72, quando la lega dei Diritti Civili riuscì a ottenere una legge contro ogni distinzione di sesso nelle scuole gestite col denaro del contribuente.
Molti temono che le ragioni per la separazione fra sessi possano aprire la strada ad argomenti anche per una separazione tra razze. Ma soprattutto, nessuno sa bene come curare le classi «a due velocità». La strada degli insegnanti di supporto non ha dato grandi risultati e ha costi giudicati insostenibili. Alla fine rimane la scialuppa di esperienze — come quelle dei voucher, i buoni-scuola, o le charter school,
scuole «non profit» gestite da privati finanziati dallo Stato e dalla beneficenza — che hanno già registrato sostanziali fallimenti in molti Stati dell'Unione ma che, in alcune situazioni estreme, rimangono ancora l'ultima speranza. Anche qui saltano tutti gli schemi ideologici: la sinistra che osteggia i voucher considerandoli una sovvenzione alla scuola privata dei ricchi non sa cosa rispondere al genitore nero che, sui giornali, chiede di non cancellare quel «buono», unico salvagente al quale aggrapparsi per far evadere suo figlio dalla scuola del ghetto.
Il «buono» è l'ultima speranza per permettere ai meno abbienti di uscire dal ghetto massimo.gaggi@rcsnewyork.com