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Corriere: Se il «fuoriuscito» aiuta la riforma universitaria

un modello americano per gli atenei

08/11/2008
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Corriere della sera

MASSIMO PIATTELLI PALMARINI

L a riforma dell'università italiana verso la meritocrazia, tema di accesi dibattiti in questi giorni, è tanto impellente quanto ardua. Svariate proposte per criteri di merito affidabili sono state avanzate, tra le quali quella, sensatissima, di Francesco Giavazzi sul Corriere

di lunedì 3 novembre, di fare appello alle competenze del Gruppo 2003, formato dai 30 docenti universitari italiani che hanno il più alto impact factor, cioè i cui lavori professionali hanno il più elevato numero di citazioni sulle riviste internazionali.

Ad essi potrebbero affiancarsi i membri della Fondazione Issnaf ( Italian Scientists and Scholars in North America Foundation), nata nel 2007 su iniziativa di autorevoli esponenti della comunità scientifica, tecnologica e accademica italiana negli Stati Uniti. Tra i suoi soci si contano quattro premi Nobel, due premi Balzan, un Medaglia Field (l'equivalente del Nobel per la matematica) e vari membri delle National Academies

americane. Onorandomi di essere uno dei soci fondatori, dopo consultazione con il presidente della Issnaf, professor Vito Campese e con gli altri membri, posso farne presente la disponibilità. Uno degli obiettivi dichiarati di questa fondazione è, infatti, proprio quello (cito dal suo statuto) di «esercitare un ruolo attivo per contribuire a una trasformazione del sistema universitario italiano in senso meritocratico, che lo renda più competitivo a livello internazionale ». I comitati consultivi sono composti da membri che prestano volontariamente i loro servizi. Attualmente sono coperti i seguenti settori: Scienze ambientali, Ingegneria, Informatica e Tecnologia delle Comunicazioni, Medicina e Biologia, Matematica Fisica e Chimica, Scienze Economiche e Sociali, Scienze Umane, Industria e Impresa.

Ci sembra che sia opportuno cercare di disinnescare subito due possibili reticenze. La prima è che abbiamo da tempo, tutti noi «fuorusciti», notato una forte diffidenza verso «quelli che stanno all'estero». Questa è dovuta a molti fattori, alcuni comprensibili, altri meno.

C'è un naturale senso di orgoglio nazionale italiano e un desiderio di conservare la propria autonomia verso quelli che vengono da «fuori» e vorrebbero spiegarci come organizzare l'università italiana. Vale, però, la pena di far presente che, proprio perché «esterni», non abbiamo paraocchi o alleanze accademiche appiccicose, pur avendo, per storia personale incancellabile, a cuore il miglioramento della comunità scientifica italiana. Possiamo leggere e valutare dei dossier in italiano e abbiamo tutti adeguata conoscenza delle situazioni locali italiane.

La seconda reticenza, anch'essa in parte comprensibile e in parte meno, è la storica perplessità verso i modelli americani (non dico anti-americanismo, pur diffuso, dico solo perplessità). Qui si impone di far presenti alcuni dati e alcune considerazioni. Le università americane, in varia misura, stanno attualmente attraversando difficili settimane di ridimensionamento spese. La presente crisi economica globale non le risparmia certo. Imperniate sul merito come lo sono state per decenni, cercano di utilizzare lo sprone attuale anche come un'occasione per migliorare ulteriormente. I parametri di eccellenza istituzionale e individuale sono già da tempo consolidati e i dati che forniscono sono pubblici. Non sono calibri perfetti, certo, ma sono assai buoni e si sono via via affinati. L'intenzione, adesso, è di trarne tutte le conseguenze, alcune non piacevoli, ma indispensabili. Per esempio tagliando il superfluo, sfrondando i doppioni, stimolando le collaborazioni, fondendo tra di loro centri e dipartimenti affini, mettendo i più scientificamente deboli sotto la direzione dei più forti, chiudendone alcuni, licenziando i precari meno meritevoli e pensionando gli anziani non più adeguatamente produttivi (già, proprio così, spiacevole ma necessario).

Questo, forse, acuirà le perplessità dei nostri colleghi italiani e magari susciterà un genuino anti-americanismo, ma il sistema universitario italiano non può sperare di far fronte alle richieste indilazionabili di questo momento e lasciare quasi tutto com'è. Due semplici dati di perfetta routine possono rendere vivida la diversità tra i due sistemi, quello italiano e quello americano. Ogni tre o quattro anni, ogni dipartimento universitario americano viene soggetto a uno scrutinio rigoroso da parte di membri esterni, colleghi di altre università. Il comitato di scrutinio esterno, dopo un'attenta visita, redige un documento di valutazione (Apr, Academic Program Review), avendo intervistato individualmente non solo i capi di laboratorio e di istituto, i ricercatori e i docenti, ma anche (si noti bene) i rappresentanti degli studenti e il personale amministrativo (segretarie comprese). Il rapporto finale è poi reso pubblico, dopo che gli interessati hanno avuto agio di obiettare pubblicamente, se credono (ma i casi sono rari), ma non possono cambiarlo. Il tutto viene eseguito, posso testimoniarlo, con grande equilibrio e in spirito di perfetta equità. Infine, ogni anno, i migliori neo-dottorati di ogni dipartimento beneficiano di un rigoroso esame, spietato e insieme amichevole, che li allena a presentarsi sul mercato del lavoro. Bombardati ad arte da domande difficili, ricevendo specifici suggerimenti su come rispondere al meglio e su come comportarsi durante le future vere interviste, poi decollano verso il loro primo impiego, accademico o industriale. Sottolineo, ad onta delle perplessità verso il modello americano, ciò che questa pratica sottintende: esiste un mercato del lavoro di alto profilo intellettuale, è normale che il neo-dottorato vada a cercare un impiego altrove, la selezione sarà fatta unicamente sul merito, il corpo docente che lo ha formato interviene non (sottolineo non) con una raccomandazione clientelare, ma con un processo di ottimizzazione del valore del futuro candidato.

La disponibilità dei «fuoriusciti» a contribuire a una svolta si basa sul possibile vantaggio che il sistema italiano avrebbe nell'utilizzare chi ha pratica quotidiana di un sistema di questo genere. Non certo su inesistenti sensi di superiorità dei cervelli che sono (come si dice) «fuggiti».


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