Corriere: Scuola, le cifre dell'emergenza
Studenti che lasciano, prof anziani Tagliato un sesto dei finanziamenti Gian Antonio Stella
Coleotteri, astronavi, incunaboli... Si può fare una lista di una infinità di argomenti di cui Silvio Berlusconi e Walter Veltroni «non» hanno giustamente mai parlato in questa campagna elettorale. Quel che proprio non si capisce è come facciano a parlare così poco di scuola. Perché è lì, sulla scuola, che ci giochiamo tutto.
Diranno: non è vero. E accuseranno i soliti giornali, le solite televisioni e i soliti cronisti di cogliere nei loro discorsi solo le battute del «teatrino della politica». Può darsi. Fatto sta che a incrociare nell'archivio dell'Ansa dell'ultimo mese i nomi dei due principali sfidanti traboccano le citazioni sull'Alitalia e la par condicio, le tasse e il comunismo, le alleanze e Ciarrapico e un mucchio di altre cose. Meno, salvo eccezioni, la scuola.
Peccato: se c'è un'emergenza superiore ad ogni altra, da noi, è quella. Lo dicono i rapporti Ocse del P.i.s.a. (Programme for international student assessment) che ogni tre anni valutano la preparazione degli studenti quindicenni di tutto il mondo e che ci hanno visto affondare sempre di più fino a inabissarci nelle scienze al 36? posto su 57 paesi passati al setaccio, coi ragazzi settentrionali che reggono il passo e quelli meridionali che sprofondano sotto i livelli della Turchia o del Messico. Al punto, per fare un solo esempio, che a una domanda banale come «perché sulla Terra c'è un'alternanza tra il giorno e la notte?» la risposta corretta («la Terra ruota intorno al suo asse») è data nelle isole da poco più di un allievo su quattro.
Lo dicono i bilanci degli ultimi lustri, che rivelano come, al di là dei volonterosi «bla, bla, bla» l'Italia abbia smesso da un pezzo di credere nella scuola tanto da aver tagliato dal 1990 al 2006 addirittura un sesto dei finanziamenti. Soprattutto a livello locale: regioni, province e comuni spendono oggi il 130 per cento in più che nel '90, ma se nella sanità hanno accelerato fino al 140, sull'istruzione hanno fatto il contrario stando al di sotto del 25 per cento rispetto all'aumento medio di cui dicevamo.
Lo dice infine un dossier che gli specialisti di «Tuttoscuola», sconcertati dai silenzi sul tema nel dibattito elettorale, hanno messo insieme per incendiare il confronto questa mattina alla Camera tra la democratica Mariangela Bastico, viceministro dell'Istruzione, e l'azzurra Valentina Aprea, già sottosegretario al ministero dell'Università e della ricerca nel precedente governo delle destre. Dibattito organizzato e condotto dal direttore della rivista, Giovanni Vinciguerra.
Un dossier allarmante. Che in un Paese serio non farebbe chiuder occhio agli aspiranti premier. A partire dalla fotografia dei drammatici contrasti fra i vari pezzi del Paese: «Più che di una scuola italiana, si deve parlare di tante scuole, diverse da Regione a Regione, da Provincia a Provincia. Le differenze sono rilevanti, a volte assurde, inspiegabili ». Province «con 100 computer per istituto e altre con 30». Aree «dove le graduatorie di istituto per le supplenze sono pronte entro il 1? settembre e altre dove dopo 3 mesi si assiste ancora al carosello dei docenti sulle cattedre». Zone dove la capacità di trattenere i ragazzi che vogliono mollare è abissalmente diversa: «A Ravenna la dispersione nel biennio iniziale degli istituti professionali è dello 0,9%, a Crotone del 47,4%». Per non dire delle cose minime, quelle che nei Paesi civili vengono date per scontate: «Il certificato di conformità dei Vigili del fuoco è posseduto dal 70% degli edifici scolastici di Forlì, solo dal 7% di quelli di Isernia». Insomma: centoncinquanta anni «di centralismo amministrativo, fatto di migliaia di circolari, di riforme e controriforme, hanno prodotto un sistema di istruzione molto più disomogeneo, sul piano della qualità del servizio offerto e dei risultati ottenuti dagli allievi, di quanto si potrebbe supporre».
Di più: alla vigilia di un cambiamento epocale, il federalismo scolastico previsto dalla riforma costituzionale del «titolo V» voluta nel 2001 dal centrosinistra col trasferimento di un mucchio di competenze e di poteri alle Regioni fin dal settembre 2009, fra un anno e mezzo, la svolta si annuncia sotto i peggiori auspici. Tanto più dopo i tagli finanziari agli enti locali di questi anni. Tagli messi in carico al sistema scolastico: «Le Province riescono a pagare per l'istruzione nell'esercizio di competenza solamente il 38% degli impegni di spesa assunti con deliberazione nel medesimo anno finanziario ». Quanto ai comuni capoluogo, le cose vanno anche peggio. Le spese «per la scuola dell'infanzia sono consistenti solo dove c'è una tradizione che va in questa direzione, come nel caso di Reggio Emilia, ma si abbassano fino quasi ad azzerarsi in altri casi, come quelli di Sassari e Caltanissetta, dove gli impegni per l'infanzia sfiorano appena lo 0,1% dell'impegno complessivo».
Assurdo. Soprattutto in un Paese come il nostro che, povero di spazi e risorse energetiche, dovrebbe puntare tutto sulle intelligenze. Su quella che Carlo Carboni in «Elite e classi dirigenti in Italia» chiama la «manutenzione del capitale umano». Gli studi dell'Ocse e della Commissione europea non lasciano dubbi: occorre investire sulla testa delle persone. «Risulta infatti che se si aumentano dell'1% gli investimenti del settore produttivo si ottiene, sul lungo periodo, un aumento del prodotto pro-capite dell' 1,3-1,5 per cento. Se parallelamente si innalza di un anno il livello medio di istruzione della popolazione in età di 15-64 anni, nel medesimo periodo s'ottiene un aumento del 3,8-6,8%».
Bisogna crederci, però. Ricorda il dossier che il divario tra le abilità informatiche di un adulto e di ragazzo, in un Paese come
l'Italia in cui oltre la metà degli abitanti con più di sedici anni confida di non aver «mai usato un computer», si allarga drammaticamente: «Si calcola che il gap tecnologico che esiste oggi tra una persona anziana e il proprio nipote è molto più consistente di quello che c'era una volta tra un anziano completamente analfabeta e il nipote che andava a scuola». Di più: «Se tra noi e gli antichi romani ci separano circa cinquanta nonni, si può sostenere che non ci sia mai stato in tutto questo arco di storia un gap tanto ampio tra un nonno e un nipote come quello di oggi e dei prossimi anni».
Ci vorrebbe una scuola all'altezza. Ma può esserlo, se un insegnante su due (solo nove anni fa erano poco più di un quarto: 27%) ha oltre cinquant'anni? Se ogni tentativo di introdurre qualche incentivo per i più bravi è stato bloccato da furenti rivolte di piazza («Dopo vent'anni di scuola chi ha diritto di valutarmi: chi?»), frustrato da mille distinguo sindacali o peggio ancora affogato nelle sabbie mobili del rinvio? Se lo scellerato scambio contrattuale («Io ti pago poco ma ti chiedo poco») ha finito da una parte per umiliare lo Stato ormai paralizzato in ogni possibilità di selezionare i suoi docenti e dall'altra per umiliare i docenti che nella scuola per l'infanzia, se hanno meno di otto anni di anzianità, sono pagati ormai 14 euro e 60 centesimi l'ora, cioè quanto una baby sitter? Se i «disabili» vengono moltiplicati per poter moltiplicare poi gli insegnanti di sostegno? Se «l'analisi delle 3.347 richieste di inabilità al lavoro presentate alla Asl di Milano dal gennaio 1992 al dicembre 2003 mostra che l'incidenza delle patologie psichiatriche sul totale è del 49.8% per la categoria degli insegnanti, del 37.6% per gli impiegati, del 28.3% per gli operatori sanitari e solo del 16.9% per gli operai» quindi che «il mestiere dei maestri e dei professori è oggi il più usurante dal punto di vista psicologico-psichiatrico»?
Per non dire dei bidelli, che sono un po' la prova di come da decenni la precedenza non venga data agli utenti (gli studenti e le loro famiglie) ma alla massa informe del «personale scolastico». Dice il dossier di «Tuttoscuola» che, mentre in altri Paesi come il Giappone, la Finlandia o la Spagna «il compito di tenere puliti i banchi, le aule e i corridoi delle scuole fa parte dei normali doveri degli stessi allievi» che anzi imparano subito a rispettare la proprietà collettiva, ci sono da noi più bidelli che carabinieri nelle caserme: 167 mila.
«Ma un altro dato colpisce di più: ce n'è uno ogni 2,2 classi. Per un costo complessivo per lo Stato che sfiora i 4 miliardi di euro all'anno». E il bello è che, nonostante costino mediamente «367 mila euro l'anno a istituto », da molte parti hanno costretto le scuole ad assumere part-time, due ore al giorno, delle «scodellatrici». Addette solo a mettere nel piatto dei bambini il cibo che arriva già cotto. Perché, direte voi, non scodellano loro? «Ah, no! Nel contratto c'è scritto...»