Corriere: Scuola, il Sud sbaglia a gridare al complotto
di GIAN ANTONIO STELLA Il vizietto antico del Paese senza merito La riluttanza a giudicare gli studenti è figlia della riluttanza dei docenti ad essere giudicati
L’ assessore all'Istruzione campano, Corrado Gabriele, ha capito perché la scuola meridionale esce a pezzi dalle statistiche: «E’ ’n'aggressione mediatica». Come a dire: piove, Nord ladro! Lancia dunque un appello a Vasco Errani, presidente della Conferenza Stato-Regioni, perché «chieda formalmente all'Invalsi di verificare con serietà i dati prima di lanciare notizie pericolose e fuorvianti».
Insomma, basta coi numeri fastidiosi. L’irritazione della classe dirigente del Sud è scontata. Nelle ultime settimane sono grandinate sulla «sua» scuola accuse di ogni tipo. Prima la delibera del consiglio provinciale di Vicenza contro la gestione dei concorsi per presidi.
Una gestione così «generosa» nel Mezzogiorno che, avendo riconosciuto uno sproposito di «idonei» (a dispetto dei tetti fissati dalla legge), ha già fatto distribuire all’ultima tornata 108 posti su 118 a «prof meridionali »... Poi la sparata di una deputata leghista per imporre un esame di dialetto ai docenti da assumere al Nord. Poi l’idea di chiedere l’obbligo di residenza... Poi le polemiche sul boom di diplomati col massimo dei voti, esageratamente alto in Sicilia o in Campania rispetto al Veneto o alla Lombardia... Fino ai dati dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione che, esaminati i test di 1.304 scuole medie su un totale di 6.000 (un campione amplissimo), ha accertato che nel Sud (meglio: non solo nel Sud ma soprattutto nel Sud) troppi test erano stati falsati per far fare bella figura, diciamo così, agli studenti e quindi ai professori.
Un vizietto antico. In un Paese dove da decenni è stata demolita la politica del merito rimpiazzata dalla cooptazione, dalla spintarella, dalla raccomandazione (che Mastella definì «un peccato veniale servito per molto tempo a riequilibrare le ingiustizie Nord-Sud») è ormai entrato sottopelle a troppi italiani lo slogan che in tutt’altro contesto cantava Caterina Caselli: «Nessuno mi può giudicare».
Ed ecco i 2.295 compiti copiati su 2.301 all’esame di Stato per avvocati a Catanzaro. Ecco le decine di concorsi taroccati all’Università, che hanno portato a casi abnormi come quello di un giovane siciliano che lo stesso giorno ha ricevuto una lettera di assunzione della Columbia di New York e una dell’ateneo di Palermo che gli comunicava che non possedeva i titoli per insegnare lì. Ecco le decine di denunce, nel novembre scorso, per il concorso (finito sotto inchiesta: troppi copioni) che avrebbe dovuto benedire la promozione dei nuovi magistrati. Chiamati poi a vigilare contro i concorsi-truffa altrui.
Anche dopo lo scandalo dell’esamificio calabrese ci fu chi gridò al complotto: «La ferocia demolitrice con cui la stampa, la radio e la televisione hanno aggredito tutta la città di Catanzaro...». Si è poi visto com’è finita. È bastato cambiare le regole, facendo esaminare i compiti ai commissari di un’altra regione, incrociandole a sorteggio, per stravolgere una tradizione che un anno aveva visto a Milano il 94% dei bocciati e a Catanzaro il 94% di promossi.
Non ha senso, davanti a certi numeri, gridare ai complotti. Dice l’ultimo rapporto Ocse del P.i.s.a. che i quindicenni siciliani al livello più basso sono il doppio della media Ocse e il quadruplo che in Azerbaigian. Eppure, prima della stretta attuale, i bocciati alla maturità nell’isola erano l’1,3%. Con un record nel 2006 a Enna e Messina di 9 respinti ogni mille studenti. Dov’è il complotto? E dov’è il complotto se neppure una delle università meridionali è tra le prime trecento del mondo? Meglio sarebbe se la classe dirigente del Mezzogiorno, oltre a reagire strepitando (giustamente, talora) davanti alle più avventurose provocazioni leghiste, si facesse carico d’un problema: la scuola al Sud è in condizioni difficili. Spesso penose. Lo è per ragioni storiche, perché il contesto di certe aree è complicatissimo, perché troppi genitori non collaborano, perché il ruolo degli insegnanti è stato via via sgretolato, perché troppi docenti, anche potenzialmente bravissimi, hanno il morale sotto i tacchi... Per mille motivi: ma è così. E non serve accompagnare un ragazzo fino alla maturità pretendendo il minimo del minimo e rinviando il problema a «dopo», quando andrà a schiantarsi con le barriere di una società competitiva, dura, feroce.
Questo, per quel che si capisce, è successo nei test dell’Invalsi. Troppi professori hanno dato ai loro studenti «un aiutino». Per una specie di solidarietà tra «vittime di un sistema che non funziona».
Perché hanno ormai rinunciato al merito in una società che non premia chi lo merita. Perché, dopo mesi di dibattiti sul «come» giudicare la produttività di un insegnante e come pagarlo conseguentemente per quanto vale o non vale, erano spaventati dall’idea che i risultati mediocri dei loro allievi sarebbero stati rovesciati addosso a loro: «Oddio, e poi il mio stipendio? La mia cattedra? Il mio lavoro?». Certo è che per l’ennesima volta si è saldato un rapporto perverso: nessuno giudica nessuno per non essere giudicato.
Il che, a differenza di quanto sostiene Mariastella Gelmini, non c’entra col ’68. O meglio, c’entra «anche» con il sei politico e il ’68 e quelle cose là. Ma c’entra soprattutto con una filosofia egualitarista che affonda le sue radici, trasversali a destra e sinistra, nel clientelismo, nel familismo amorale, nel patto insano tra lo Stato e una parte del sistema pubblico: io ti pago poco, tu mi dai poco. Col risultato che anche la scuola non ha come obiettivo il «cliente», cioè la crescita dello studente. Ma la gestione il più possibile tranquilla, «pacificata», di un milione di posti di lavoro.
Sia chiaro, però: il problema segnalato dai test dell’Invalsi, come ha cercato di spiegare il presidente Piero Cipollone, non vale solo per il Sud ma per tutto il Paese. Da Capo Passero a Sondrio. E la prova è sotto gli occhi di tutti: la riluttanza a giudicare gli studenti è figlia della riluttanza a essere giudicati.
Vale per i docenti, per i quali da anni non esiste più alcuna forma di valutazione. Vale per i dirigenti. Fino a qualche tempo fa c’era una specie di «autovalutazione» sperimentale in cui uno si auto-votava (ottimo, buono, discreto...) determinando così la propria carriera e il proprio stipendio. Una cosa ridicola. Ma non c’è più manco quella.