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Corriere: Scuola, il Sud sbaglia a gridare al complotto

di GIAN ANTONIO STELLA Il vizietto antico del Paese senza merito La riluttanza a giudicare gli studenti è figlia della riluttanza dei docenti ad essere giudicati

12/08/2009
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Corriere della sera

L’ assessore all'Istruzione campano, Corrado Gabriele, ha capito perché la scuola meridionale esce a pezzi dalle statistiche: «E’ ’n'aggressione mediatica». Come a dire: piove, Nord ladro! Lancia dunque un appello a Vasco Errani, presidente della Conferenza Stato-Regioni, perché «chieda formalmente all'Invalsi di verificare con serietà i dati prima di lanciare notizie pericolose e fuorvianti».
Insomma, basta coi numeri fastidiosi. L’irritazione della classe dirigente del Sud è scontata. Nelle ultime settimane sono grandinate sulla «sua» scuola accuse di ogni tipo. Prima la delibera del consiglio provinciale di Vicenza contro la gestione dei concorsi per presidi.
Una gestione così «generosa» nel Mezzo­giorno che, avendo riconosciuto uno spropo­sito di «idonei» (a dispetto dei tetti fissati dalla legge), ha già fatto distribuire all’ultima tornata 108 posti su 118 a «prof meridiona­li »... Poi la sparata di una deputata leghista per imporre un esame di dialetto ai docenti da assumere al Nord. Poi l’idea di chiedere l’obbligo di residenza... Poi le polemiche sul boom di diplomati col massimo dei voti, esa­geratamente alto in Sicilia o in Campania ri­spetto al Veneto o alla Lombardia... Fino ai dati dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione che, esaminati i test di 1.304 scuole medie su un totale di 6.000 (un campione amplissimo), ha accerta­to che nel Sud (meglio: non solo nel Sud ma soprattutto nel Sud) troppi test erano stati falsati per far fare bella figura, diciamo così, agli studenti e quindi ai professori.

Un vizietto antico. In un Paese dove da de­cenni è stata demolita la politica del merito rimpiazzata dalla cooptazione, dalla spinta­rella, dalla raccomandazione (che Mastella definì «un peccato veniale servito per molto tempo a riequilibrare le ingiustizie Nord-Sud») è ormai entrato sottopelle a trop­pi italiani lo slogan che in tutt’altro contesto cantava Caterina Caselli: «Nessuno mi può giudicare».

Ed ecco i 2.295 compiti copiati su 2.301 al­l’esame di Stato per avvocati a Catanzaro. Ec­co le decine di concorsi taroccati all’Universi­tà, che hanno portato a casi abnormi come quello di un giovane siciliano che lo stesso giorno ha ricevuto una lettera di assunzione della Columbia di New York e una dell’ate­neo di Palermo che gli comunicava che non possedeva i titoli per insegnare lì. Ecco le de­cine di denunce, nel novembre scorso, per il concorso (finito sotto inchiesta: troppi copio­ni) che avrebbe dovuto benedire la promozio­ne dei nuovi magistrati. Chiamati poi a vigila­re contro i concorsi-truffa altrui.

Anche dopo lo scandalo dell’esamificio ca­labrese ci fu chi gridò al complotto: «La fero­cia demolitrice con cui la stampa, la radio e la televisione hanno aggredito tutta la città di Catanzaro...». Si è poi visto com’è finita. È bastato cambiare le regole, facendo esamina­re i compiti ai commissari di un’altra regio­ne, incrociandole a sorteggio, per stravolge­re una tradizione che un anno aveva visto a Milano il 94% dei bocciati e a Catanzaro il 94% di promossi.

Non ha senso, davanti a certi numeri, gri­dare ai complotti. Dice l’ultimo rapporto Oc­se del P.i.s.a. che i quindicenni siciliani al li­vello più basso sono il doppio della media Ocse e il quadruplo che in Azerbaigian. Ep­pure, prima della stretta attuale, i bocciati al­la maturità nell’isola erano l’1,3%. Con un re­cord nel 2006 a Enna e Messina di 9 respinti ogni mille studenti. Dov’è il complotto? E do­v’è il complotto se neppure una delle univer­sità meridionali è tra le prime trecento del mondo? Meglio sarebbe se la classe dirigen­te del Mezzogiorno, oltre a reagire strepitan­do (giustamente, talora) davanti alle più av­venturose provocazioni leghiste, si facesse carico d’un problema: la scuola al Sud è in condizioni difficili. Spesso penose. Lo è per ragioni storiche, perché il contesto di certe aree è complicatissimo, perché troppi geni­tori non collaborano, perché il ruolo degli in­segnanti è stato via via sgretolato, perché troppi docenti, anche potenzialmente bravis­simi, hanno il morale sotto i tacchi... Per mil­le motivi: ma è così. E non serve accompa­gnare un ragazzo fino alla maturità preten­dendo il minimo del minimo e rinviando il problema a «dopo», quando andrà a schian­tarsi con le barriere di una società competiti­va, dura, feroce.

Questo, per quel che si capisce, è successo nei test dell’Invalsi. Troppi professori hanno dato ai loro studenti «un aiutino». Per una specie di solidarietà tra «vittime di un siste­ma che non funziona».

Perché hanno ormai rinunciato al merito in una società che non premia chi lo merita. Perché, dopo mesi di dibattiti sul «come» giudicare la produttività di un insegnante e come pagarlo conseguentemente per quanto vale o non vale, erano spaventati dall’idea che i risultati mediocri dei loro allievi sareb­bero stati rovesciati addosso a loro: «Oddio, e poi il mio stipendio? La mia cattedra? Il mio lavoro?». Certo è che per l’ennesima vol­ta si è saldato un rapporto perverso: nessuno giudica nessuno per non essere giudicato.

Il che, a differenza di quanto sostiene Ma­riastella Gelmini, non c’entra col ’68. O me­glio, c’entra «anche» con il sei politico e il ’68 e quelle cose là. Ma c’entra soprattutto con una filosofia egualitarista che affonda le sue radici, trasversali a destra e sinistra, nel clientelismo, nel familismo amorale, nel pat­to insano tra lo Stato e una parte del sistema pubblico: io ti pago poco, tu mi dai poco. Col risultato che anche la scuola non ha come obiettivo il «cliente», cioè la crescita dello studente. Ma la gestione il più possibile tran­quilla, «pacificata», di un milione di posti di lavoro.

Sia chiaro, però: il problema segnalato dai test dell’Invalsi, come ha cercato di spiegare il presidente Piero Cipollone, non vale solo per il Sud ma per tutto il Paese. Da Capo Pas­sero a Sondrio. E la prova è sotto gli occhi di tutti: la riluttanza a giudicare gli studenti è figlia della riluttanza a essere giudicati.

Vale per i docenti, per i quali da anni non esiste più alcuna forma di valutazione. Vale per i dirigenti. Fino a qualche tempo fa c’era una specie di «autovalutazione» sperimenta­le in cui uno si auto-votava (ottimo, buono, discreto...) determinando così la propria car­riera e il proprio stipendio. Una cosa ridico­la. Ma non c’è più manco quella.


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