Corriere: Scelte urgenti per la ricerca; I fondi premino l'eccellenza
Il rettore della Bocconi, Angelo Provasoli: i problemi delle università non si risolvono creando cattedrali nel deserto
Se guardiamo i numeri, la Finanziaria segna un passo avanti (o per lo meno non uno indietro) in tema di università e ricerca. Sono 400 i milioni di euro di aumento per i settori università (320 milioni) e ricerca (80 milioni). A salire è anche il credito di imposta in ricerca: le imprese che stipulano contratti di ricerca e collaborazione con università e centri di ricerca potranno beneficiare di un credito d'imposta pari al 40 per cento delle spese sostenute, contro il 15 per cento dello scorso anno. Ogni impresa potrà infine portare in deduzione fino a 50 milioni di euro (prima erano solo 15).
I numeri testimoniano quindi un'attenzione della politica nei confronti di un settore da tutti considerato strategico al quale però non si presta mai la necessaria attenzione. Ma i numeri non sempre descrivono con la dovuta attenzione la realtà e soprattutto non sono utili per individuare una linea politica. Alzare di qualche punto il credito d'imposta o di qualche milione la spesa per università e ricerca non serve a dare all'Italia una strategia in tema di alta formazione e ricerca.
Il sistema universitario italiano è al palo perché da troppo tempo manca di una strategia che non sia quella di aprire nuovi atenei (compresi quelli telematici siamo a 91) o nuovi corsi di studio (3.089 quelli di primo livello e 2.412 quelli di secondo). Tutti ugualmente riconosciuti a livello legale, tutti ugualmente inseriti nell'arena competitiva della quale il processo di Bologna ha gettato le fondamenta. Come si concilia, per esempio, la politica di un ateneo per ogni campanile con i continui appelli alla mobilità degli studenti? E la qualità con la scarsità di risorse?
Il Libro verde sulla spesa pubblica sottolinea i problemi della nostra università: a quelli sopra citati vanno aggiunti il rapporto docenti/studenti inadeguato; gli scarsi servizi accessori (leggi mense, alloggi, eccetera); l'insufficiente numero di borse di studio con un importo per di più inadeguato; lo scarso ricorso a meccanismi di selezione degli studenti all'ingresso. E altri ancora. Tutti problemi strettamente connessi alla quantità di risorse finanziarie e alla qualità del loro utilizzo.
Esistono poi problemi di gestione degli atenei: dal sistema di governance con «una marcata tendenza alla autoreferenzialità» al sistema di remunerazione dei docenti, evidentemente troppo rigido e non capace di premiare la qualità del lavoro. Per non parlare dei meccanismi concorsuali inefficienti e della composizione del corpo docente «inadeguata, con troppi professori ordinari e associati rispetto al numero dei ricercatori».
Alla mancanza di eccellenze come si risponde? Sicuramente in modo inefficace e spesso creando nuove cattedrali nel deserto, aprendo nuovi laboratori dal nulla o investendo in nuove agenzie per l'innovazione. Nel 2003, per esempio, la comunità scientifica si è profondamente divisa (per non dire opposta) alla decisione di istituire l'Istituto italiano di tecnologia, quello che subito era stato ribattezzato come il Mit italiano. Se davvero si vuole che slogan come «l'importanza del capitale umano» o dichiarazioni d'intenti sull'importanza dell'innovazione diventino fatti concreti è necessaria una svolta nella politica italiana. È necessario che l'attenzione dai numeri si sposti sulla qualità delle scelte.
Perché di questo stiamo parlando, di fare delle scelte, di premiare quei centri e quelle facoltà già in odore di eccellenza concentrando qui le risorse umane e finanziarie. Scelte che vanno fatte consapevolmente e in modo partecipato. Al controllo di qualità e produttività effettuato dai vari Cnvsu e Civr o dal sempre costituendo Anvur bisogna necessariamente unire il confronto con la comunità scientifica. Non con le caste, ma con la comunità. Non si tratta infatti di mantenere privilegi e posizioni ma di rendere protagonista delle scelte chi la ricerca e la didattica la fa ogni giorno. E se queste scelte portassero anche alla chiusura di atenei o centri di ricerca nessuno dovrebbe gridare allo scandalo. Anzi. Solo a questo punto, dopo aver affrontato il problema da un punto di vista qualitativo, potremmo tornare a parlare di numeri.