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Se nessuno punta sui cervelli di FABRIZIO MATTESINI Una delle differenze fondamentali tra la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo e quelle precedenti è il ruolo giocato dall...
Se nessuno punta sui cervelli
di FABRIZIO MATTESINI
Una delle differenze fondamentali tra la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo e quelle precedenti è il ruolo giocato dalle grandi università, specialmente americane. Università prestigiose come Stanford, Berkeley, Harvard o Mit oltre ad essere centri di eccellenza dove lavorano le migliori menti del mondo, sono ormai vere e proprie imprese capaci di sfruttare e finanziare le invenzioni dei loro studenti più geniali e di contribuire così, in un costante rapporto con le aziende, allo sviluppo economico dell'area in cui si trovano ad operare. Nel 2003 la Columbia University ha raccolto, dalle invenzioni brevettate, 155 milioni di dollari. Il solo collocamento delle azioni di Google, che è nata come seguito della tesi di dottorato di due studenti d'ingegneria, ha fruttato all'Università di Stanford, che aveva finanziato la ricerca, 15,7 milioni di dollari più altri 200 milioni di dollari in azioni. Anche le università italiane, da un po' di anni a questa parte, hanno cominciato a darsi da fare. E in verità, i dati sulla loro attività di brevettazione - della Sapienza in particolare - indicano chiaramente che Roma, nel panorama nazionale, rappresenta una delle realtà più dinamiche. Se però andiamo a confrontare le cifre con quelle delle università americane, il ritardo appare incolmabile.
Si può obiettare che il numero di brevetti non riflette la vera situazione della ricerca universitaria, dove gran parte dell'attività è concentrata sulla ricerca di base e che non sempre le innovazioni tecnologiche vengono registrate negli appositi uffici. Il dato sui brevetti, rimane però un indicatore significativo del gap. Un divario che non dipende sicuramente dalla qualità delle menti prodotte dal nostro sistema universitario, dato che l'Italia è, insieme all'India uno dei maggiori esportatori di cervelli nel mondo, ma che è un sintomo del suo profondo malessere.
Considerando che il nostro Paese spende in ricerca e sviluppo, in rapporto al Pil, circa un terzo di quanto spendono gli Usa o altri paesi europei quali la Svezia e la Finlandia, la distanza che separa le nostre università da quelle americane è sicuramente un problema di risorse. Ma non solo. È anche un problema di organizzazione e di assetto istituzionale. Mentre le università americane, e in qualche misura anche quelle inglesi, sono istituzioni autonome in concorrenza tra di loro per attirare gli studenti e i ricercatori migliori, le nostre sono istituzioni elefantiache, ingabbiate in una burocrazia ossessiva che mortifica l'iniziativa individuale.
Purtroppo, a livello nazionale, c'è una totale mancanza di idee e di iniziative riformatrici. Molto però è possibile fare a livello locale e non mancano esempi significativi, come quello della Catalogna, dove la ricerca universitaria ha raggiunto in pochi anni livelli di vera eccellenza grazie all'intervento del governo regionale. Dato che il Lazio è già in testa, tra le regioni italiane, quanto ad attività innovative ed ha pertanto enormi potenzialità, forse è il caso di cominciare a fare, su questo tema, una seria riflessione.