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Corriere: Rette più alte per salvare gli atenei «Giusto, l’ha fatto anche Blair»

Le proposte per i finanziamenti. Cammelli: «Forti investimenti» Decleva: «Va rivisto tutto il modello». Tremonti: «Aiuti a chi merita»

15/07/2009
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Corriere della sera

MILANO — Un phasing out , una strategia graduale di riforma. In cui, chissà, «introdurre un meccanismo che dia la gratuità del servizio a chi non ha soldi e faccia pagare qualco­sa a chi li ha». Se l’oggetto del dibat­tito è l’università, la traduzione del­la frase pronunciata ieri da Giulio Tremonti è immediata: rette in rial­zo per chi può, aiuti per chi merita.
Una battuta che è (anche) una ri­sposta a quanto scritto da Francesco Giavazzi sul Corriere : stanti i tagli sui fondi destinati agli atenei, per «conciliare» le posizioni dei due mi­nisteri — Economia e Istruzione — c’è «un solo modo»: «alzare le ret­te ». Mediamente «inferiori ai 1.000 euro l’anno», e «ogni studente ne co­sta ai contribuenti circa 7.000». Poi, borse di studio ai meno abbienti. E sarà pure vero, come si fa sfuggire Tremonti, che «scrivere un fondo sul Corriere è più facile che fare una riforma della scuola»; sta di fatto che lo snodo delle tasse è al centro di molti esperimenti e riflessioni. Non ultima, la riforma voluta da Tony Blair (che sull’innalzamento delle rette quasi si giocò la poltro­na) e lodata dall’Ocse.
Enrico Decleva, presidente della Crui (la Conferenza dei rettori), ci tiene a precisare: «Tremonti ha rilan­ciato il tema, è vero. Non come fatto simbolico, però, bensì come un ele­mento del quadro; in realtà mi sem­bra sia una riconsiderazione genera­le di alcuni aspetti del diritto allo studio. Può essere che l’aumento delle tasse ne faccia parte; ma se co­sì fosse, andrà accompagnato dal ri­pensamento dei prestiti d’onore». E in prospettiva, «bisognerà ripensare il modello su cui si finanzia il siste­ma; anche i parametri interni (con il vincolo del 20% di contributo stu­dentesco rispetto al fondo di finan­ziamento ordinario) non corrispondono più alla realtà». Comunque vada, l’importante è che, al di là delle «condi­zioni quantitative», gli interlocutori «hanno ri­conosciuto che il proble­ma c’è».
Perché «il costo dei sistemi universitari — interviene At­tilio Oliva, presidente dell’associa­zione TreeLLLe — è ovunque cre­scente nel mondo: le iscrizioni supe­rano il 50% della popolazione di 19enni». Un «fenomeno epocale» che causa «uno squilibrio struttura­le tra possibilità di finanziamento statale e costi in aumento». Di fron­te a ciò, «il servizio pubblico di istru­zione universitaria deve rimanere un impegno primario dello Stato; non va ridotto nei suoi importi (già bassi: in Italia siamo allo 0,8% del Pil, in Europa la media è l’1,2) ma au­mentato. A condizione che il siste­ma diventi responsabile, cosa che non è». Seconda proposta: «Si supe­ri il tabù dell’intoccabilità delle ret­te. Una laurea è un investimento in­dividuale con ritorni consistenti. Ora gli studenti pagano il 15% dei co­sti reali, non si capisce perché non si possano aumentare anche signifi­cativamente, come nell’Inghilterra di Blair».
Anche Andrea Cammelli, diretto­re di AlmaLaurea, snocciola cifre. Di segno un po’ diverso: «Aumentare le tasse? In Europa la banda di oscil­lazione va da Paesi con rette prossi­me allo zero, come la Germania, ai 360 euro l’anno della Francia, a un massimo di 2.100 nel Regno Unito. A Bologna, già nella triennale si va da 1.260 a oltre 2.300». Quindi: «Di­re che se non abbiamo altre risorse qualche aumento va fatto, soprattut­to su chi ha redditi elevati (e, come sostiene la Gelmini, con un’opera­zione di arricchimento per chi esce da famiglie disagiate), mi sembra il minimo. Ma in un quadro diverso. Perché l’Italia sta destinando all’uni­versità molto meno degli altri Paesi; e so bene che i soldi sono pochi, ma anche nelle annate più nere il conta­dino non smette di seminare...».


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