Corriere: No all'università divisa per tribù
Dove andremo a finire, se la credibilità scientifica si riduce alla credibilità identitaria?
Sergio Luzzatto
I lettori del Corriere hanno appreso nei giorni scorsi del caso di Nadia Abu El-Haj, la docente della Columbia University di New York che rischia il posto per avere scritto un libro controverso sugli usi politici dell'archeologia nello Stato di Israele.
Di origini palestinesi, questa studiosa di antropologia culturale, già vincitrice di onorificenze fra le più prestigiose del mondo accademico anglosassone, si trova oggi in una situazione simile a quella di Norman Finkelstein, lo studioso di origini ebraiche che accusa Israele di sfruttare la Shoah a fini politici, il quale ha dovuto recentemente dimettersi dalla De Paul University di Chicago.
Una volta di più, il caso di Abu El-Haj pone il problema non soltanto della libertà di ricerca, ma della libertà di insegnamento nel nostro libero Occidente. Tale libertà non risulta più garantita, sempre e comunque, a professori che dedichino i loro studi ai temi più «sensibili» di storia e civiltà del Medio Oriente.
Non appare una soluzione accettabile del problema il sottoporre gli studiosi in questione a una sorta di plebiscito elettronico della corporazione universitaria, dove centinaia o migliaia di colleghi pronunciano con un clic il loro verdetto di assoluzione o di condanna.
Meno ancora appare una soluzione la scelta delle rispettive Università di sottoporre le carriere dei docenti «incriminati» al giudizio di commissioni ad hoc, formate secondo un criterio di appartenenza «etnica»: tanti colleghi «ebrei», tanti «musulmani », tanti «cristiani»… Dove andremo a finire, se la credibilità scientifica si riduce alla credibilità identitaria?