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Corriere: Latino, Italia record: lo studiano 4 su 10

Primi al mondo. Polemiche sull'obbligo

25/04/2008
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Corriere della sera

Domanda: sapete qual è al mondo il Paese che studia di più il latino? Risposta: quel Paese è l'Italia. Bene, verrebbe da esclamare d'impulso, se non fosse che non sempre, purtroppo, la quantità va di pari passo con la qualità. È questo il risultato più significativo di un'inchiesta («Latino perché, latino per chi») realizzata dall'associazione TreeLLLe, che da anni si occupa di avanzare proposte per migliorare l'educazione nelle nostre istituzioni scolastiche. A spiegarlo, esibendo i dati dell'indagine, è Attilio Oliva, ex imprenditore, già membro del direttivo e responsabile del settore scuola di Confindustria, oggi presidente di TreeLLLe: «Nella nostra scuola la diffusione dell'insegnamento e il peso attribuito alle lingue classiche sono notevolmente più elevati rispetto a tutti gli altri Paesi europei e agli Stati Uniti».
I numeri parlano chiaro: dell'intera popolazione della scuola secondaria, che nel 2005 era costituita da 2 milioni e mezzo di studenti, oltre un milione, equivalente al 41 per cento, era impegnato nello studio del latino. Il confronto con un altro Paese neolatino come la Francia rivela uno scarto abissale: dal 19 per cento nelle scuole medie si precipita al 3 nelle superiori. Ovvio che la Germania (con il 5-8 per cento) e la Gran Bretagna (con l'1-2 per cento) si collochino molto più in basso. Così come gli Stati Uniti con l'1,3 per cento.
Le ragioni dell'eccezione italiana? È ancora Oliva a rispondere, in due punti. Primo: «Il latino è previsto nel curriculum di tutti i licei, escluso l'artistico, dal classico allo scientifico, dal linguistico al socio-psico-pedagogico. Negli altri Paesi, invece, in generale il latino è contemplato solo in alcuni indirizzi di tipo umanistico-letterario». Secondo: «L'insegnamento del latino (e del greco) conserva da noi un carattere obbligatorio, mentre altrove è opzionale, per lo più fin dagli anni Settanta».
E a molti appare come un paradosso il fatto che persino nei licei scientifici l'area letteraria pesa per il 38 per cento, mentre quella strettamente scientifica si attesta attorno al 30. Insomma, rimane intatto il retaggio dell'impianto classico-umanistico voluto a suo tempo da Gentile per la formazione delle nuove classi dirigenti fasciste. Il fatto è che il latino (ma anche il greco) non rappresenta più, come un tempo, una garanzia di serietà e di solidità. Ed è questo il punto. Come si insegna il latino? E come viene studiato?
Dalle indagini di TreeLLLe, emerge un'ulteriore evidenza che la dice lunga sulle condizioni dell'insegnamento: è l'elevato numero di allievi che arrivano all'esame di maturità (trascinandoseli dietro dagli anni precedenti) con «debiti» nelle lingue classiche: il 40 per cento circa. Poco meno del vero spauracchio che è, e rimane, la matematica (per le lingue straniere ci si ferma tra il 22 e il 27 per cento).
«Sono ragazzi — dice Oliva — che esercitano una sorta di opzionalità clandestina per tutto il corso di studi per arrivare sani e salvi all'esame di maturità senza avere di fatto studiato le lingue classiche».
In realtà, pur considerando la tradizione italiana (antica e moderna), l'esempio degli altri Paesi, che in genere mirano a considerare le lingue classiche come una sorta di opzione specialistica, potrebbe insegnare molto. Non tanto per seguirlo pedissequamente, ma almeno per rimettere in discussione vecchie convinzioni. E soprattutto per domandarsi se per caso le scelte strutturali operate decenni fa in funzione di una scuola comunque d'élite siano ancora utili per una scuola che nel frattempo è diventata di massa. Va detto, a onor del vero, che nel '62, con l'elevamento dell'obbligo scolastico a 14 anni, fu anche sancita l'eliminazione del latino dalla nuova scuola media unificata, ma la riforma delle superiori non uscì dalle varie fasi sperimentali. E così, la questione del latino nei licei è rimasta perennemente aperta, tra nostalgie e ripensamenti. Tant'è vero che nel '96 la rivista MicroMega propose un dibattito tra abolizionisti e restauratori del latino (non solo nella scuola ma anche in ambito liturgico), scoprendo che tra questi ultimi c'era uno schieramento di intellettuali di sinistra, guidati da Giancarlo Rossi, direttore della rivista Latinitas. Il quale vedeva nel latino il segno di una contraddizione propria della nostra società, visto che per un quindicennio, nel dopoguerra, convegni, disegni di legge, consulte didattiche e inchieste ministeriali avevano messo a confronto l'enfasi — se non il fanatismo — dei riformatori (pronti a ricordare i trascorsi fascisti del latino) e la tenacia dei difensori a oltranza o apologeti, come si definiva lo stesso Rossi.
La verità è che spesso, per un equivoco più o meno indotto, l'insegnamento del latino si confonde con l'esercizio grammaticale, dimenticando che la lingua di Cicerone è la nostra lingua madre, per non dire la nostra lingua tout court, oltre che l'antenata delle lingue romanze. In quel contesto, Cesare Segre ricordava già allora come la sinistra abolizionista, che considerava il latino lingua dell'aristocrazia, fosse convinta che «svigorire il latino era un modo per rendere tutti uguali». E commentava: «È vero, ma tutti uguali nell'ignoranza ». Per Edoardo Sanguineti, viceversa, le «fanfaluche » di chi ritiene indispensabile la conoscenza del latino per il nostro modo di pensare e per la nostra struttura logica erano gli argomenti su cui si reggeva la cultura dei figli della Lupa. Sanguineti metteva in guardia dai fondamentalismi di chi insisteva sulla traduzione italiano-latino e sulle perifrastiche passive, e osservava che il colpo mortale alla lingua latina è stato inferto non tanto dalla scuola ma dalla Chiesa e dalla decisione di tradurre la liturgia in italiano.
Detto questo, tutte (o quasi tutte) le questioni che vengono sollevate dalle ricerche di TreeLLLe rimangono sul tappeto e aspettano qualcuno che le affronti in maniera complessiva e coraggiosa: «Negli altri Paesi — dice Oliva — si è provveduto da tempo a riconsiderare quali discipline e competenze debbano ritenersi indispensabili nella scuola dell'obbligo. Per le lingue classiche si è preferito, in genere, riservare l'insegnamento a chi manifesta un autentico e motivato interesse. In tal modo il latino e il greco hanno assunto il carattere di materie specialistiche in ambito letterario e sono state sostituite dallo studio, obbligatorio o opzionale, delle lingue straniere». Sarebbe giusto, in Italia, rinunciare, oltre che alla grammatica, anche allo studio della civiltà greco-romana? Oppure sarebbe meglio tagliare corto e ipotizzare, come propone qualcuno, una nuova materia che sacrifichi le strutture linguistiche e valorizzi lo studio della cultura? Oppure? Oppure, l'eccezionalità dell'Italia, volendo, può anche rimanere tale. Ma solo volendo.
Paolo Di Stefano


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