Corriere: La vera riforma? Pagare meglio i docenti migliori
UNIVERSITÀ
MICHELE SALVATI
U na buona università è così importante per il futuro del Paese, e la nostra è così al di sotto degli standard migliori, che forse merita tornare sull'argomento sul quale il Corriere è già intervenuto con un mio articolo il 14 agosto e con la replica del ministro Mussi il giorno successivo.
Nel mio articolo affermavo un punto generale e fornivo un esempio particolare. Il punto generale, a commento di un'importante iniziativa dei ministri Mussi e Padoa-Schioppa volta a reprimere comportamenti sbagliati delle singole sedi universitarie, è che l'università è sistema, di cui è parte determinante il ministero. E affermavo che anche il ministero può sbagliare, e ha sbagliato di recente. Rinviando altrove per un'analisi più dettagliata, mi soffermavo su un esempio particolare, su quello che ad avviso mio e di altri è stato un errore: non aver tenuto in vita l'attività di valutazione della ricerca attuata dal Civr fino al momento in cui il nuovo organismo di valutazione voluto da questo governo, l'Anvur, fosse stato in grado di sostituirlo. Sicché nel 2008 ci troveremo con un vuoto di valutazione di circa cinque anni.
Su questo punto il ministro non risponde se non dicendo che il mandato del Civr verrà rinnovato a settembre: meglio tardi che mai, ma perché non è stato rinnovato subito? Afferma invece il ministro che i fondi incentivanti saranno distribuiti sulla base del modello di un altro organismo di valutazione, il Cnvsu, il cui mandato è stato recentemente rinnovato. Questo però è un modello in cui i risultati della ricerca pesano solo per un terzo (un terzo del 5% — del finanziamento complessivo dell'università — destinato all'incentivazione: dunque circa l'1,6%!), gli altri due terzi essendo legati alla valutazione della didattica. In particolare, un terzo è legato ai risultati dell'insegnamento in modo piuttosto rozzo e non esclude comportamenti opportunistici da parte delle università: voti migliori dovuti soltanto alla minore severità degli esami. E l'ultimo terzo dipende dalla numerosità degli iscritti: poiché oggi solo in piccola parte gli studenti si muovono cercando le università migliori e più esigenti, il numero degli iscritti non può certo essere preso come un indicatore di qualità. Insomma, del potere incentivante della piccola percentuale dei fondi dedicata a questo scopo credo sia legittimo dubitare. Al di là degli errori, non si poteva far di meglio? Non si poteva essere un po' più coraggiosi? A questa domanda il ministro risponde che — di fronte a modesti ma concreti tentativi di riforma — io sarei caduto nel vecchio sport del «benaltrismo» (ben altro ci vorrebbe!). Se questo rimprovero fosse stato rivolto ad alcuni miei colleghi che all'università italiana propongono modelli eccellenti, ma difficilmente trasferibili, — modelli che si attuano in Paesi nei quali il settore privato svolge un ruolo che nel nostro non sembra avere alcuna intenzione di svolgere — in parte esso potrebbe essere giustificato. Ma chi scrive, e tanti altri universitari con lui, non propongono di trasformare l'Italia negli Stati Uniti: propongono riforme che incontrerebbero certo molte resistenze, ma sono perfettamente attuabili in un sistema come il nostro, a prevalenza pubblica e però con università (parzialmente) autonome. Un esempio soltanto. C'è qualche motivo di efficienza o di giustizia che giustifichi il principio secondo il quale gli stipendi dei docenti, a parità di ruolo e di anzianità, debbano essere rigorosamente eguali in tutte le università, e debbano crescere secondo scatti biennali uniformi e secondo una scala mobile speciale, che accomuna gli universitari ai magistrati e ai parlamentari? La conseguenza di questo principio è che un vecchio professore, che appare di rado in università e non pubblica da molti anni (ovviamente non tutti i vecchi professori sono così!), ha uno stipendio parecchio più alto un suo collega più giovane ma molto attivo e brillante. Non potrebbero le università essere lasciate libere di rivedere, ognuna in modo autonomo, livelli e scatti in modo da incentivare chi svolge una eccellente attività di ricerca e di insegnamento?
Questo, mi sembra, avrebbe due grandi vantaggi. Il primo è che la massa di risorse mobilitabile a scopi incentivanti non sarebbe solo il 5% dello stanziamento complessivo, ma buona parte del suo ammontare, quella parte che oggi è composta dagli stipendi del personale docente. Il secondo è che responsabili del buon uso di questo grande potere di selezione e incentivazione sarebbero le singole università, tra le quali si innescherebbe una salutare gara competitiva: il compito del ministero sarebbe quello di controllare che la gara si svolga con lealtà e dia esiti corrispondenti all'interesse collettivo.