Corriere: La ricerca che non produce.Pochi brevetti in Italia
«Aiuterebbero a far rientrare i cervelli»
Diminuiscono i finanziamenti pubblici, nonostante gli impegni dell'incontro di Lisbona
La proposta Vescovi: «No al posto a vita, sì a controlli ogni 5 anni per capire come si lavora
Qual è la materia prima del nostro Paese? Il cervello, dicono in molti. Nel Rinascimento si investiva nel genio e in Italia. Tempi lontani. Leonardo da Vinci oggi lavorerebbe negli Stati Uniti. Ricerca e brevetti non sembrano più essere il motore del nostro sistema produttivo. Ancor più di fronte a una crisi economica mondiale come l'attuale. «Investire in ricerca», è la ricetta su cui puntano Barack Obama a Nicolas Sarkozy. «Non tagliate in questo settore», ammonisce governo e Parlamento il presidente Giorgio Napolitano. Nella realtà, la situazione non è rosea. Il 2009 si annuncia ancor più povero in fondi pubblici e privati. Le multinazionali, in crisi nei Paesi d'origine, non possono certo favorire l'Italia.
Il problema, però, è anche quello dei brevetti: va bene pochi soldi, ma almeno produttivi. Quanti brevetti vengono dalla ricerca italiana in Italia? Pochi in proporzione a quelli firmati dagli italiani all'estero. Soprattutto in campo biomedico. «Dietro alla scrivania di Antonio Giordano alla Temple University o nello studio di Carlo Croce all'Ohio University spiccano decine di brevetti firmati da italiani», racconta Ignazio Marino, anche lui chirurgo e ricercatore negli Stati Uniti prima dell'elezione a senatore del Pd. E' made in Italy il 10-20% di quanto brevettato nelle università americane. Diverso in Italia. Eccellenza nelle pubblicazioni scientifiche, disinteresse nei brevetti. In particolare in medicina. I Politecnici, il San Raffaele, la Normale di Pisa hanno da anni un ufficio brevetti. Altre università si sono attivate dal 2002-2003. Ancora poche. Registrare un brevetto biomedico può costare 20-30 mila dollari negli Stati Uniti, anche il doppio in Italia. Quindi, meglio che del brevetto si occupino altri. Per esempio le aziende farmaceutiche.
«La cultura della ricerca in Italia va cambiata — ammonisce il sottosegretario del Welfare, Ferruccio Fazio —. I pochi fondi vanno erogati per progetti e valutati all'inizio e durante la loro realizzazione da una commissione di esperti internazionali. Modello che ho già indicato per i nostri fondi». E le aziende si adeguano. La Fondazione Lilly, per esempio, d'ora in poi adotterà questi criteri per finanziare la ricerca in Italia con, ogni anno, un grant di 360.000 euro (durata 4 anni) al miglior progetto di ricerca selezionato nel campo delle scienze per la vita. «Il problema — commenta Enrico Garaci, presidente dell'Istituto superiore di sanità — è che oggi in Italia esiste una profonda divaricazione tra la produzione di conoscenza e la sua valorizzazione economica e sociale. L'Italia da sola crea il 4% della conoscenza mondiale con una vasta produzione scientifica, eppure nella classifica della competitività nei Paesi Ocse il nostro Paese occupa solo il 46? posto».
Come fare? Due le vie: attrarre investimenti; puntare di più sui brevetti. «Un modo per far rientrare i cervelli», dice il senatore Marino, che avverte: «Salvo modifiche, dai 331 milioni e 628 mila euro della finanziaria Prodi per il 2008, la manovra Tremonti in discussione taglia 35 milioni e mezzo alla ricerca sanitaria». E i brevetti? Risponde Antonio Giordano: «Un modo per far rientrare i ricercatori perché vuol dire che ci sono loro progetti approvati e finanziati». A Lisbona i big europei erano d'accordo: più fondi alla ricerca. L'Italia aveva assicurato di arrivare al 3% del Pil, dall'1,1 del 2008. Ora scende allo 0,9-1% (pari a 810 milioni di euro). La Francia, invece, aumenta del 50% il budget destinato alla ricerca. Anche la Svezia, prima in Europa (4,27% del Pil), ha deciso di destinare altri 500 milioni di corone alla ricerca per il 2009. «Cominciamo a dire no al posto a vita, istituendo controlli regolari ogni 5 anni», dice Angelo Vescovi, biologo cellulare dell'università Milano-Bicocca.
Milano-Bicocca ha un ufficio brevetti. Però non ne esiste uno a livello istituzionale e non lo hanno nemmeno le nostre charity. O meglio Telethon lo ha istituito l'anno scorso. Chiara Cecchi è responsabile del trasferimento tecnologico: «Nei bandi di quest'anno il 40% dei diritti è nostro». L'Airc invece non ha nulla. Il suo centro d'eccellenza, l'Ifom, ha però brevettato tre marcatori tumorali. Qualcosa sta cambiando in Italia. Le charity americane e inglesi con i brevetti finanziano altre ricerche. Peraltro il nostro Paese non è appetibile per studi sull'uomo. Le multinazionali preferiscono Est Europa, Cina, India, Malesia: meno burocrazia, volontari meno costosi, assicurazione inesistente o ridotta al minimo. «Al contrario — dice Filippo De Braud, ricercatore oncologo dello Ieo —, attira fondi la nostra ricerca clinica precoce sui farmaci anticancro». Grazie anche a un network di coordinamento nato dieci anni fa: la Fondazione Sendo ( South european new drug organisation). Dice il direttore Silvia Marsoni: «Coordiniamo centri in Svizzera, Italia e Spagna. In 10 anni abbiamo testato 23 nuovi farmaci».
Infine, alle multinazionali che investono non piace la lentezza italiana nell'autorizzare i farmaci innovativi. L'Aifa di Guido Rasi garantisce: «Accelereremo». E spunta, in un convegno di Novartis, l'ipotesi di una «corsia preferenziale» per chi investe in Italia (come in Francia). Il senatore Pdl Antonio Tomassini aggiunge: «Valuteremo anche un credito di imposta per chi fa ricerca da noi».
Mario Pappagallo