Corriere-La mia università scomparsa
Verso l'addio LA MIA UNIVERSITA' SCOMPARSA di CLAUDIO MAGRIS Fra qualche giorno diventerò anch'io, per i miei colleghi, un oggetto niente affatto oscuro di desiderio come Arduino ...
Verso l'addio
LA MIA UNIVERSITA' SCOMPARSA
di CLAUDIO MAGRIS
Fra qualche giorno diventerò anch'io, per i miei colleghi, un oggetto niente affatto oscuro di desiderio come Arduino Agnelli, professore come me nella facoltà di Lettere a Trieste e mio amico da più di quarant'anni, autore, fra le altre cose, di studi fondamentali sull'idea di Mitteleuropa e sull'austromarxismo e per due legislature senatorie nelle file del Psi. Fra tre anni Agnelli, dopo una vita dedicata all'università, andrà - per raggiunti limiti d'età - in pensione. Quando passa per i corridoi o interviene alle sedute, gli sguardi dei colleghi, che pure lo apprezzano universalmente, lo seguono bramosi e impazienti come quelli degli avvoltoi e dei corvi che, nei western, volteggiano al di sopra di impavidi cow boys che attraversano il deserto sfiniti dalla sete. Un po' più giovane di lui, alcune settimane fa ho chiesto, dopo 42 anni di servizio effettivo, il collocamento in anticipo fuori ruolo e dunque fra tre anni andrò in pensione insieme a lui. Alla notifica del relativo decreto diverrò dunque anch'io una promessa di un prossimo piccolo pasto, oggetto di complessi calcoli matematici relativi alle "quote" - ossia a misteriose unità di danaro - che la mia dipartita lascerà disponibili.
Non si tratta del consueto posto libero lasciato da chi va in quiescenza e dei contrasti e appetiti che desta la sua possibile utilizzazione. Negli ultimi anni i normali interessi successori hanno subito una trasformazione antropologica, dilatandosi con febbrile ossessione e impaniandosi in conteggi elaboratissimi.
Chi va in pensione non lascia più vacante una cattedra, da destinare a un altro docente, bensì libera alcune quote, ossia parti o frazioni del suo stipendio, la spartizione delle quali esige non solo l'abituale aggressività primordiale, come quella dei lupi nei romanzi di Jack London, ma anche una sofisticata arte combinatoria, a metà fra la cabala e il calcolo infinitesimale.
Una quota delle quote potrà essere prelevata, come un balzello, dall'amministrazione centrale, altre saranno suddivise o sommate per ingaggiare un associato più mezzo ricercatore, oppure un ricercatore e mezzo più forse un termosifone, oppure per contribuire all'allestimento di uno stand in cui l'università presenta se stessa, regalando uno zainetto a ogni studente che partecipa all'iniziativa. Da qualche anno, all'università, non si parla che di quote; si somma, sottrae, divide, occupando così quasi tutto il tempo che dovrebbe essere dedicato a ricercare, insegnare, leggere, discutere di problemi scientifici con allievi e colleghi.
Questa perenne e sterile fibrillazione non è una cosa nuova e non è imputabile al ministro Moratti, che prosegue l'opera dei suoi predecessori, ora migliorandola (ad esempio con la benemerita reintroduzione dei concorsi nazionali, dopo la burletta di quelli locali) ora esasperandone negativamente il lambiccato bizantinismo e l'ansiosa e ansiogena incertezza. Il deterioramento dell'università è avvenuto negli ultimi anni sotto governi di diverso e opposto colore e del resto avrebbe potuto essere arginato solo da eccezionali intelligenze e capacità politiche, perché tutti i governi della cosiddetta Seconda Repubblica hanno trovato un'università scalcagnata da immissioni scriteriate, spesso dovute non a disegni organici di largo respiro ma a leggine speciali, sanatorie, rattoppi, idoneità regalate come un sigaro e una croce di cavaliere quando non avevano efficacia pratica e poi tramutate in posti fissi e così via. La vecchia, classica università aveva le sue pecche, ma una sua logica e una sua struttura organica e funzionava. La sua trasformazione - necessaria per la nuova dimensione di massa e le vertiginose innovazioni del sapere e delle sue tecniche - non è mai avvenuta. I rammendi e i compromessi - fra sbracate concessioni demagogiche, civetterie con mode culturali vagamente orecchiate, difese corporative di obsoleti e iniqui privilegi feudali e modernizzazioni a vanvera - l'hanno distrutta senza crearne un'altra.
Tale situazione non sembra destinata a migliorare con l'attuale disegno di riforma. Come rivela la febbre delle quote, l'imperante economicismo, che crede di poter trasformare di colpo le università in imprese, produce l'effetto contrario. L'impresa ha la sua logica e la sua peculiarità e proprio per questo non ogni cosa è un'impresa. Una famiglia, una fabbrica di scarpe e una brigata alpina devono essere tutte gestite con oculatezza economica, senza sprechi e facendo quadrare i bilanci, ma senza scordare che il fine della fabbrica di scarpe è il profitto, il quale invece per la famiglia e per la brigata alpina - e anche per l'università - è un mezzo necessario per realizzare altri fini. La Fiat è un'azienda, l'Italia o la Chiesa no, e ciò non significa sottovalutare la dignità della Fiat. Una cultura d'impresa inoltre non si crea per decreto o vezzo intellettuale. Le università americane hanno dei patrimoni che investono, ma non passano tutto il tempo a parlare di investimenti, anche quando è il momento di parlare di filologia classica o di odontoiatria. Da noi invece le università, strangolate dalla povertà di mezzi che spesso le priva delle più elementari attrezzature scientifiche e assordate dall'aziendalismo ideologico, parlano solo di soldi senza produrli.
Un'altra comica e nefasta scopiazzatura è stata l'introduzione dei crediti. I crediti hanno imposto una gretta mentalità, secondo la quale ogni attività dello studente - dalla lettura di un libro a una corsa campestre - deve comportare un utile formale e immediato. Mesi fa uno studente mi ha detto che sarebbe venuto a sentire un seminario interdisciplinare su letteratura e scienza, tenuto alla Scuola superiore di studi avanzati di Trieste, se ciò gli avesse procurato dei crediti. Stupefatto che non gli fosse venuta in mente l'idea di andarci perché il tema lo interessava, gli ho chiesto se aveva mai baciato gratis una ragazza. I crediti disabituano a investire. Ogni investimento, all'inizio, è un rischio; le cose che facciamo solo per amore - anche leggere un libro - sono spesso quelle che poi ci rendono di più, ma indirettamente, ed è ridicolo pretendere punti perché si è letto - si spera con passione - Leopardi. La distribuzione dei crediti fra i vari corsi e discipline è complicatissima, scatena contese, esige conteggi tortuosi, togliere un credito a un modulo (ossia a uno spezzone di lezioni) per poterne assegnare due a un altro, ma i conti non tornano, i crediti mancano e avanzano e le energie che bisognerebbe dedicare alla filosofia di Kant o al diritto civile vengono assorbite da logoranti e rissosi puzzle.
L'informatica, oggi necessaria come l'alfabetizzazione, è stata doverosamente introdotta, con un'enfasi peraltro spesso contraddetta dalla mancanza di fondi per comprare un computer - talora perfino per rinnovare l'abbonamento a riviste scientifiche essenziali. Tuttavia anche l'informatica - come la letteratura, la chimica e qualsiasi materia - se usata male può diventare anticultura, spesso spocchiosa. Una collega mi raccontava che uno studente, in un biglietto, le aveva scritto "grazzie" e, alle sue rampogne, aveva risposto che non aveva importanza perché, se l'avesse scritto non a mano ma come di consueto al computer, questo avrebbe provveduto a correggerlo. L'utilissima possibilità di inviare sms, mi ha detto un altro collega, induce alcuni studenti a chiedere, per tale via istantanea, il giorno prima dell'esame quali libri è opportuno leggere per l'esame stesso, libri il cui elenco è affisso in bacheca.
Inoltre la giusta selezione e la verifica del lavoro dei docenti sono ben diverse dalla crescente e caotica incertezza. La mancanza di cattedre induce a coprire gli insegnamenti con una selva di contratti a brevissimo termine, che non creano alcuna reale figura d'insegnante e impediscono ogni continuità e ogni ordinato svolgimento degli studi. Il vero e proprio corso, atto ad approfondire per tutto l'anno un argomento, a impartire una formazione istituzionale e a stabilire un rapporto concreto fra docenti e allievi, è sempre più sostituito o pasticciato dai "moduli", monconi erranti di dieci, venti o trenta lezioni, in cui il contatto estrinseco fra il docente e gli studenti si dissolve subito.
Oltre un certo limite, la precarietà del posto di lavoro ostacola la selezione, perché allontana le forze migliori. Alcuni colleghi miei coetanei hanno a suo tempo vinto una cattedra quando lavoravano in altri settori, ad esempio in banche, industrie o in altre amministrazioni; hanno accettato la cattedra, lasciando il lavoro precedente, perché anche la cattedra dava a essi e alle loro famiglie la tranquillità economica, senza la quale non avrebbero forse potuto permettersi la scelta accademica.
Pure l'articolazione dei corsi di studi e delle lauree specialistiche, priva di un saldo modello, costringe a discussioni interminabili e spesso inconcludenti su quanti e quali corsi o moduli attivare, suddividere, spezzare, nel dissolvimento di ogni itinerario di studi preciso. Non sono le paventate centoventi ore di lezione "frontale" (?), che molti già di fatto tengono per le necessità del loro insegnamento, a minacciare i docenti, la lezione e la ricerca. Sono le innumerevoli ore di sedute, comitati, commissioni didattiche, snervanti discussioni, che occupano il tempo e le energie e ostacolano la riflessione, lo studio, il dialogo sui temi di una ricerca o di una disciplina.
Travestita sotto le spoglie di una modernizzazione tecnocratica, trionfa la vecchia retorica dei blateramenti assembleari. È anche questo che soffoca l'università, dove non si dovrebbero fare quasi soltanto riunioni; lo Spirito, ha detto Céline, non ama le riunioni.