Corriere: L'Università può scardinare la società chiusa e corporativa
Bisogna introdurre negli atenei meccanismi di valutazione e di incentivi coerenti con il mercato Andrea Sironi, prorettore dell'Università Bocconi
Atenei aperti alla concorrenza. E i ragazzi cambieranno l'Italia
MILANO — Nelle aziende italiane può capitare che il figlio del proprietario, anche se poco in gamba, abbia più responsabilità e potere di un dirigente di qualità. Questo disconoscimento dei meriti, talvolta sacrificati nel nostro capitalismo familiare al primato del «familismo economico», alla lunga influisce sulla competitività dell'imprenditoria italiana, peraltro una delle componenti meno provinciali e chiuse del nostro Paese, esposta e allenata com'è al pressing competitivo dei mercati internazionali. Figuriamoci il resto.
Al convegno dedicato all'università quale luogo di selezione della classe dirigente Pietro Corsi, storico che insegna a Oxford, è partito da qui per chiedersi come i nostri atenei possano fornire un contributo alla progressiva apertura di una società ripiegata e ossificata nei suoi circuiti e nei suoi corporativismi. «L'operazione è complessa — ha detto Corsi — si tratta di ribaltare la situazione. Da sempre, la formazione universitaria, essendo da noi come in Francia una funzione dello Stato, rispecchia le caratteristiche di quest'ultimo. Adesso, occorre rovesciare tutto: cambiare l'università per cambiare, poco alla volta, il Paese».
La realtà attuale è spesso fatta di eccesso di burocrazia, clientelismo, baronati e politica politicante che uccide la vita dei dipartimenti sottraendo energie alla ricerca e al rapporto con gli studenti. «È invece necessario — ha affermato Corsi — inoculare elementi nuovi, così che poi dalle aule escano ragazzi con una mentalità diversa». Merito, controllo, trasparenza, selezione a tutti i livelli: dei docenti come degli allievi. «C'è bisogno — ha detto Andrea Sironi, prorettore della Bocconi con delega all'internazionalizzazione — di introdurre meccanismi di valutazione e incentivi coerenti con la cultura di mercato». Una cura in grado, poi, di dispiegare in maniera omeopatica, goccia dopo goccia, anno dopo anno, i suoi effetti in tutto il corpo sociale e economico dell'Italia. Una rivoluzione. Ma necessaria. «Anche perché una cosa è certa — ha rincarato Roberto Perotti, in Bocconi dopo una esperienza alla Columbia University —: il nostro sistema formativo non funziona più». Infatti l'università italiana, versione estrema — nelle sue caratteristiche e nei suoi difetti del modello statalista dell'Europa continentale — fa fatica a selezionare una classe dirigente in grado di imporsi per la sua forza e originalità sui mercati internazionali, trascinando con sé tutto il Sistema-Paese.
«Oggi — ha osservato Antonio Borges, ex rettore dell'Insead e vicepresidente di Goldman Sachs — i leader della globalizzazione, in termini di crescita di produttività e di balzi tecnologici, sono Stati Uniti e Gran Bretagna: Paesi aperti anche nelle loro eccellenze universitarie».
Perché non si assista alla marginalizzazione del sistema formativo italiano, che avrebbe poi come conseguenza un downgrading
delle nostre élite economiche e culturali nei contesti internazionali, occorre muoversi in fretta. Tuttavia al convegno — a cui hanno partecipato fra gli altri il consulente d'impresa Alfredo Ambrosetti e il presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo — il sociologo Guido Martinotti della Bicocca ha pensato di fare professione di realismo: «Non dimentichiamoci che l'università si muove in un contesto deficitario: solo a Milano mancano 22 mila alloggi per gli studenti».
In una situazione così complessa, la chiave di volta è anche il collegamento internazionale con le cattedrali della società aperta. «Dove — ha detto Corsi — la formazione costa cara, ma non per i più meritevoli. I quali sperimentano ascese sociali, rispetto alle loro origini, che in Italia ci scordiamo. Penso a tre dei miei migliori allievi di Harvard, oggi tutti in ottime posizioni: Timothy, figlio di maestri elementari; Frank, di un droghiere; Martin, il cui papà fa il tranviere. Di tutto questo abbiamo bisogno».