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Corriere: L'Università delle ipocrisie

Francesco Giavazzi

14/07/2009
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Corriere della sera

LA RIFORMA E QUELLO CHE NON SI DICE

L'Università delle ipocrisie

Da almeno 30 anni ogni tentativo di riformare l'università è fallito per la resistenza di interessi potenti, non disposti a rinunciare ai propri privilegi. Il governo Berlusconi segue una strategia diversa, che potrebbe essere il banco di prova per altre riforme.

La legge finanziaria dello scorso anno — con un provvedimento che prevedo verrà riproposto nel Documento di programmazione economica — ha ridotto in modo drastico i fondi statali per il funzionamento delle università: meno 8% il prossimo anno, meno 17% nel 2011. A prezzi costanti i finanziamenti statali scenderanno del 20% in quattro anni. Sono stati anche azzerati i fondi per l'edilizia universitaria. Poiché la quasi totalità dei finanziamenti statali serve a pagare stipendi, con un taglio del 20% la maggior parte delle università nei prossimi due anni chiuderà. Sopravvivere indebitandosi (anche qualora lo Stato permettesse ai rettori di farlo e le banche concedessero i mutui) è una via preclusa ai più: a Siena le rate di ammortamento sui debiti contratti rappresentano già quasi il 20% delle spese non vincolate, a Firenze siamo intorno al 15%.

Mi sarei aspettato che il governo, dopo essere stato inflessibile sui tagli, annunciasse una riforma profonda dell'università ponendo gli oppositori (rettori, sindacati, baroni vari) di fronte a una scelta: accettate o vi assumete la responsabilità della chiusura delle università. Il ministro Gelmini da mesi ha nel cassetto una riforma ambiziosa e contrastata (ad esempio i rettori si oppongono alla proposta di vedersi sottratta la presidenza dei cda degli atenei e non vogliono veder modificato il meccanismo con cui sono eletti), ma non l’ha mai presentata. Perché?

A mio parere perché esistono due visioni molto diverse all'interno del governo: sull'università così come su altre riforme. Il ministro Gelmini—e i ministri «di spesa», dall'ambiente all'agricoltura — è disposto a dar battaglia sulle regole, ma chiede che, a fronte di nuove regole, tornino le risorse, o almeno un po’ di risorse. Dall'altra parte il ministro dell'economia — memore dell'insegnamento del presidente Reagan: «Affama la bestia, vedrai che diventerà mansueta» — non è disposto a rinunciare ai suoi tagli. Come ho scritto più volte, io penso che vi sia un solo modo per conciliare queste due posizioni: alzare le rette universitarie. Oggi esse sono (in media) inferiori ai mille euro l'anno, mentre ogni studente costa ai contribuenti circa 7.000 euro l'anno (quasi 12.000 se non si contassero i fuori corso). Rette più elevate dovrebbero essere accompagnate da borse di studio tali da garantire a chiunque lo meriti la possibilità di accedere all'università. Anticipo l'ovvia obiezione: in un Paese di feudi molte università non userebbero certo il merito come criterio di selezione. Ma esistono altre strade?

La mediazione fra i ministri è compito di Berlusconi: è disposto a spiegare agli italiani che l'università di fatto gratuita non solo non ce la possiamo più permettere, ma è anche un sistema iniquo perché trasferisce reddito dai poveri ai ricchi? (Gli operai rappresentano il 30% degli italiani, ma solo il 20% dei loro figli accede all'università). Oppure a novembre, quando studenti e rettori saranno insieme sulle barricate, farà ciò che hanno fatto i democristiani per 50 anni: nessuna riforma e qualche soldo in più per spegnere l'incendio?


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