Corriere: L’università delle 180 mila materie
I presidi nominano sempre più professori a contratto E gli studenti si perdono: due su tre sono fuori corso
Insegnamenti suddivisi in più parti, troppe prove da sostenere per conquistare pochi «crediti»
La battaglia della Gelmini contro l’inefficienza e i punti attribuiti grazie a una poco chiara «esperienza nel mondo del lavoro»
Sapete quanti sarebbero, calcolando il loro numero teorico in base ai crediti assegnati e alle prove superate, gli studenti perfettamente in regola con gli esami? Non più di un terzo.
Esattamente 514 mila 539, il 33% del milione e 558 mila 997 che nell’anno accademico 2007-2008 risultavano iscritti in tutta Italia ai corsi di laurea di primo livello, ovvero quelli triennali e a ciclo unico (considerando anche le lauree specialistiche e quelle del vecchio ordinamento gli studenti universitari in Italia erano l’anno scorso un milione e 806 mila 056). Si potrebbe arrivare alla conclusione che l’Italia sia diventata la patria dei somari. Oppure dei lavativi. E che nelle università statali, soprattutto meridionali, gli studenti battano particolarmente la fiacca. Qualche esempio? A Bari il numero degli studenti teoricamente in perfetta regola (l’indicatore messo a punto dal Comitato li definisce «studenti equivalenti regolari») è appena il 25,1% del totale, a Salerno il 24,7%, a Cassino il 23%, a Cagliari il 19,6%, a Reggio Calabria il 18,7%, a Palermo soltanto il 14,4%. Ma da questo a sostenere che sia tutta colpa degli universitari, ce ne corre. Che la riforma con la quale il vecchio ordinamento degli studi è stato diviso in due (le cosiddette lauree brevi triennali e le lauree specialistiche biennali) fosse un flop clamoroso era chiaro fin dall’inizio. Nonostante questo in dieci anni di continui ritocchi, si è riusciti, se possibile, a peggiorare ancora le cose. Dice il ministro attuale Mariastella Gelmini in una circolare spedita ai rettori il 4 settembre scorso, giusto al ritorno dalle vacanze estive: «La concreta attuazione della riforma non ha prodotto finora tutti i risultati attesi ».
Evviva la sincerità. Aggiunge che la percentuale di ragazzi che si iscrivono all’università è tornata sotto il 70%. Che il tasso d’abbandono dopo il primo anno è rimasto identico: 20%. Che gli studenti fuori corso «sono in costante aumento e tale aumento appare in accelerazione ». Che i corsi sono lievitati in maniera abnorme, incrementandosi del 32% in sette anni. Che le sedi periferiche sono proliferate in modo esasperato, al punto che in 70 sedi c’è un solo corso e in altre 30 appena due. Che i costi, soprattutto, sono saliti alle stelle: sottolinea Mariastella Gelmini che fra il 2001 e il 2006, periodo che sostanzialmente coincide con la gestione ministeriale della sua collega di schieramento politico Letizia Moratti, oggi sindaco di Milano, la spesa del personale e del funzionamento delle università è aumentata del 23,4 per cento. Poco meno di un quarto, senza che la qualità dell’istruzione sia minimamente migliorata.
Troppo, per non sospettare che i ministri di turno non abbiano mai letto con attenzione i rapporti del Comitato per la valutazione dell’università, dove queste cose vengono denunciate da anni. E dove si indicano con sconcertante lucidità le patologie del sistema. Se infatti l’interpretazione anarchica della riforma del 1999 ha generato una moltiplicazione insensata dei corsi di laurea, questo è niente in confronto a quello che è successo per gli insegnamenti, cioè le materie di studio. Erano 116 mila 182 nel 2001-2002, sono saliti a 180 mila 001 nel 2006-2007. Nell’università italiana c’è un insegnamento per ogni dieci studenti iscritti. Ma considerando che gli iscritti «in corso » sono un milione 73 mila 339, la proporzione scende a un insegnamento per sei studenti. Un fenomeno, sostiene il Comitato, avvenuto «senza un’apparente logica obiettiva» che ha avuto un impulso massimo nelle facoltà di Sociologia e Medicina.
Se però questo avesse comportato un miglioramento dell’efficienza universitaria e della preparazione degli studenti, niente da dire. Il fatto è che ha provocato il contrario, grazie a una follia chiamata «crediti formativi». La legge stabilisce che per conseguire la laurea triennale, il cui obiettivo iniziale era quello di abbreviare il percorso formativo per consentire ai giovani un ingresso più rapido nel mondo del lavoro, sia necessario accumulare 180 crediti: 60 l’anno. Ma un decreto dice pure che non si possono fare più di 20 esami. Diversamente, che «laurea breve » sarebbe? Questo significa che ogni esame deve «valere» almeno nove crediti. È successo però che molti insegnamenti sono stati spacchettati fino all’inverosimile, con il risultato che per raggiungere i fatidici nove crediti è talvolta necessario seguire anche due o tre insegnamenti e sostenere i relativi «esami». Allora a che serve il tetto? «Il decreto non prescrive la riduzione delle materie, ma suggerisce esami integrati e altri escamotage per abbassare il conto delle prove superate. Ad esempio, se si tratta di esami su insegnamenti scelti autonomamente, qualunque sia il numero, è come se fosse un solo esame», ha spiegato Alessandro Monti, autore di un recente saggio pubblicato da Gangemi editore dal titolo inequivocabile: Indagine sul declino dell’università italiana.
Basta pensare che dei 180 mila 001 insegnamenti attivi, ben 71 mila 038, quasi il 40% del totale, sostiene il Comitato, «hanno al massimo quattro crediti». Illuminante è una tabella contenuta nel rapporto più recente di quell’organismo, che spiega come i «crediti medi per insegnamento» siano 5,8, con un minimo di 4,2 per Sociologia, 4,4 per Medicina e un massimo di 7,8 per giurisprudenza. Questo significa che lo studente per risultare perfettamente in regola con il corso di studi deve sostenere un numero di esami anche doppio. Seguire il doppio delle lezioni, e pure comprare il doppio dei libri. D’altro canto, tanti insegnamenti diventano anche tanti incarichi da distribuire. Ecco chiarito come mai il numero dei docenti di ruolo sia aumentato del 20% in sette anni, passando dai 51 mila 191 del 2000 ai 61 mila 685 del 2008, ma soprattutto come quello dei professori a contratto, esterni agli atenei, sia cresciuto del 67%, da 20 mila 848 a 34 mila 726. Più spese, ma anche più potere per rettori e presidi e la possibilità, per i contrattisti, di scrivere «professore» sui biglietti da visita. Talvolta con qualche riflesso sulle parcelle professionali. E poi ci si stupisce che gli studenti in regola con gli esami siano così pochi?
Il capitolo dei crediti non si può archiviare senza un accenno ai crediti formativi riconosciuti a prescindere dagli esami sostenuti, soltanto in base a una dimostrabile esperienza accumulata nel mondo del lavoro. In qualche caso regali in piena regola ottenuti grazie a convenzioni con albi professionali, addirittura spezzoni della pubblica amministrazione e sindacati. Un mercato avviato anch’esso dalla riforma di dieci anni fa, che ha spesso superato il limite della decenza. Tanto che l’ex ministro Fabio Mussi aveva prescritto per decreto un tetto massimo di 60 al numero dei crediti formativi che le università potevano concedere sulla base del riconoscimento dell’esperienza. Questo ha ridotto, ma non certamente arrestato del tutto gli abusi.
Il 4 settembre Mariastella Gelmini ha scritto fra l’altro ai rettori di voler abbassare ulteriormente il tetto, portandolo da 60 a 30. Ma per fare quella operazione è necessaria una legge. Il tetto Mussi è stato infatti fissato con un decreto legge approvato nel 2006 e per cambiarlo bisogna avere il placet del Parlamento. In quella lettera l’attuale ministro, accanto ad altri propositi bellicosi per mettere un freno alla partenogenesi dei corsi e degli insegnamenti, annunciava appunto la presentazione di un apposito provvedimento alle Camere. Da allora sono passati 100 giorni.
Qualcuno l’ha visto quel disegno di legge?
Sergio Rizzo
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