Corriere. L’orario di lavoro fissato per legge E aumenti diversi
È una piccola rivoluzione, ma sembra destinata a cambiare le abitudini dei professori universitari
ROMA — È una piccola rivoluzione, ma sembra destinata a cambiare le abitudini dei professori universitari. A cominciare da quelle relative all’orario di lavoro. Fino a oggi non si è mai saputo a quante ore dovesse ammontare l’impegno lavorativo di un docente universitario nel corso di un anno. Ora lo sappiamo: 1500 ore, 36 ore a settimana. Di definito, finora, c’era solo l’impegno legato all’attività didattica, 350 ore di cui 120 da destinare alle lezioni. In alcune università la certificazione delle ore di lezione è prassi normale. Ora verrà estesa a tutti gli atenei. Il compito spetterà ai nuclei di valutazione di ciascuna università. La riforma — sempre che l’iter parlamentare non cambi alcune cose — fissa dei paletti su una materia mai regolamentata a fondo.
Naturalmente la novità non spaventerà quei docenti che nell’università hanno passato e passano la gran parte del loro tempo. «Questa mattina ho cominciato a lavorare alle nove e stasera uscirò dall'università verso le 21. Domani lavorerò fino alle tredici. Non credo che con la riforma Gelmini e i suoi incentivi potrò dare di più. Come non potranno dare di più tutti i professori che amano questo mestiere e lo hanno scelto per questa ragione». Il professor Bruno Dente insegna al dipartimento di Architettura del Politecnico di Milano, una delle università più quotate a livello internazionale.
Cambia anche lo stipendio del prof. Oggi subisce un incremento automatico ogni due anni, a prescindere da qualunque tipo di verifica sull’attività didattica e scientifica. La remunerazione può raddoppiare solo in ragione del passare degli anni. Con la riforma non solo gli scatti diventano triennali, ma vengono concessi solo dopo una verifica che verrà fatta da una commissione composta in parte da membri esterni all’ateneo. I docenti che non hanno prodotto nulla di scientificamente valido restano al palo. Sulla progressione di carriera potrebbe influire anche il giudizio degli studenti, i cui risultati comunque restano riservati a un uso interno.
Il professor Eugenio Gaudio, docente di Anatomia nella facoltà medica della Sapienza di Roma è convinto che nei prossimi anni la qualità della sua vita di cattedratico potrebbe migliorare sulla spinta di una sfida che lo appassiona: «La riforma mi indurrà a impegnarmi di più sotto il profilo scientifico e didattico perché la progressione economica sarà legata alla produttività ». Un po’ alla volta le università si apriranno alla mobilità. Nei nuovi concorsi solo un terzo dei posti può esser riservato agli interni. Luisa Collina, docente della facoltà di Design del Politecnico di Milano, già si vede immersa in un ambiente nuovo, forse internazionale, più dinamico, più stimolante, molto diverso dall’attuale caratterizzato dalla quasi totalità di docenti formati e cresciuti nella stessa università. Cambia l’ingresso nella carriera accademica, attraverso un’abilitazione nazionale per titoli. «Finalmente potrei avere la possibilità di avere degli allievi ai quali posso dare una possibilità per il futuro — dice Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale e direttore del dipartimento di Fisiopatologia medica della Sapienza —. Se oggi vado nel mio dipartimento trovo dieci allievi bravi ai quali non so quale futuro dare. Domani, con la riforma, avrei la possibilità di far prendere loro un’abilitazione nazionale, non condizionata da posti definiti ma solo sulla base della qualità scientifica».
Giulio Benedetti