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Corriere. L’orario di lavoro fissato per legge E aumenti diversi

È una piccola rivo­luzione, ma sembra destinata a cambiare le abitudini dei pro­fessori universitari

30/10/2009
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ROMA — È una piccola rivo­luzione, ma sembra destinata a cambiare le abitudini dei pro­fessori universitari. A comincia­re da quelle relative all’orario di lavoro. Fino a oggi non si è mai saputo a quante ore dovesse ammontare l’impegno lavorati­vo di un docente universitario nel corso di un anno. Ora lo sap­piamo: 1500 ore, 36 ore a setti­mana. Di definito, finora, c’era solo l’impegno legato all’attivi­tà didattica, 350 ore di cui 120 da destinare alle lezioni. In alcu­ne università la certificazione delle ore di lezione è prassi nor­male. Ora verrà estesa a tutti gli atenei. Il compito spetterà ai nu­clei di valutazione di ciascuna università. La riforma — sem­pre che l’iter parlamentare non cambi alcune cose — fissa dei paletti su una materia mai rego­lamentata a fondo.

Naturalmente la novità non spaventerà quei docenti che nell’università hanno passato e passano la gran parte del loro tempo. «Questa mattina ho co­minciato a lavorare alle nove e stasera uscirò dall'università verso le 21. Domani lavorerò fi­no alle tredici. Non credo che con la riforma Gelmini e i suoi incentivi potrò dare di più. Co­me non potranno dare di più tutti i professori che amano questo mestiere e lo hanno scel­to per questa ragione». Il profes­sor Bruno Dente insegna al di­partimento di Architettura del Politecnico di Milano, una delle università più quotate a livello internazionale.

Cambia anche lo stipendio del prof. Oggi subisce un incre­mento automatico ogni due an­ni, a prescindere da qualunque tipo di verifica sull’attività di­dattica e scientifica. La remune­razione può raddoppiare solo in ragione del passare degli an­ni. Con la riforma non solo gli scatti diventano triennali, ma vengono concessi solo dopo una verifica che verrà fatta da una commissione composta in parte da membri esterni all’ate­neo. I docenti che non hanno prodotto nulla di scientifica­mente valido restano al palo. Sulla progressione di carriera potrebbe influire anche il giudi­zio degli studenti, i cui risultati comunque restano riservati a un uso interno.

Il professor Eugenio Gaudio, docente di Anatomia nella facol­tà medica della Sapienza di Ro­ma è convinto che nei prossimi anni la qualità della sua vita di cattedratico potrebbe migliora­re sulla spinta di una sfida che lo appassiona: «La riforma mi indurrà a impegnarmi di più sotto il profilo scientifico e di­dattico perché la progressione economica sarà legata alla pro­duttività ». Un po’ alla volta le università si apriranno alla mobilità. Nei nuovi concorsi solo un terzo dei posti può esser riservato agli interni. Luisa Collina, do­cente della facoltà di Design del Politecnico di Milano, già si ve­de immersa in un ambiente nuovo, forse internazionale, più dinamico, più stimolante, molto diverso dall’attuale carat­terizzato dalla quasi totalità di docenti formati e cresciuti nella stessa università. Cambia l’in­gresso nella carriera accademi­ca, attraverso un’abilitazione nazionale per titoli. «Finalmen­te potrei avere la possibilità di avere degli allievi ai quali posso dare una possibilità per il futu­ro — dice Andrea Lenzi, presi­dente del Consiglio universita­rio nazionale e direttore del di­partimento di Fisiopatologia medica della Sapienza —. Se og­gi vado nel mio dipartimento trovo dieci allievi bravi ai quali non so quale futuro dare. Doma­ni, con la riforma, avrei la possi­bilità di far prendere loro un’abilitazione nazionale, non condizionata da posti definiti ma solo sulla base della qualità scientifica».

Giulio Benedetti


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