FLC CGIL
Contratto Istruzione e ricerca, filo diretto

https://www.flcgil.it/@3803997
Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Corriere: India, i diseredati all’università Una legge rompe il tabù delle caste

Corriere: India, i diseredati all’università Una legge rompe il tabù delle caste

A favore i partiti di sinistra. Il progetto prevede che un posto su due nei college più prestigiosi sia riservato agli ex intoccabili

23/04/2006
Decrease text size Increase text size
Corriere della sera

Progetto allo studio del governo, potrebbe estendersi alle imprese
Gli indiani vivono nell’incubo che una dittatura funzioni meglio di una democrazia, quando si deve sviluppare un Paese poverissimo. E che quindi la rivale Cina sia destinata a vincere il confronto di «economia emergente più sexy». Ora, questo retropensiero di sempre è pienamente alla prova. Davanti al governo, c’è una proposta di legge super-democratica, finalizzata a riservare quote dei posti nelle università migliori alle caste più basse e ai diseredati. L’idea sta suscitando un dibattito straordinario - tra politici, commentatori, imprenditori - e sta spingendo l’India verso scelte delicate e probabilmente inevitabili nel bilanciamento tra democrazia e capitalismo al galoppo. Il gabinetto guidato da Manmohan Singh deve decidere se dare il via libera alla legge che prevede di portare al 49,5% la quota riservata ai Dalit (gli ex intoccabili), ad altre tribù discriminate storicamente e ai cosiddetti Obc (cioè le Altre Classi in Ritardo) nelle iscrizioni ai prestigiosi Indian Institutes of Technology e Indian Institutes of Management. Al momento, la quota riservata al loro ingresso è al 22,5% e non riguarda gli Obc. La proposta, appoggiata dai partiti della sinistra che sostengono il governo e dallo stesso partito più forte della coalizione, il Congresso di Sonia Gandhi, ha dato vigore alle aspettative. Una serie di associazioni e molti politici hanno subito proposto di imporre la stessa quota anche alle imprese, in particolare a quelle hi-tech che sono il punto di forza dell’economia indiana. In gioco, in altre parole, è una parte dei frutti che al Paese porta la globalizzazione.
La cosa stupefacente è che il dibattito che ne è seguito non si è, almeno per ora, messo in termini di guerra. Gli imprenditori, ovviamente, sono contrari. «La mia società crede nell’assunzione delle persone sulla base del merito», sostiene Azim Premji, presidente di Wipro, la maggiore azienda di Information Technology indiana. E aggiunge che l’unico modo per continuare a competere globalmente e non vedere scappare le multinazionali che stanno investendo in India è assumere le persone « best-in-class », i migliori. Ma lo scontro non è muro contro muro.
Il primo ministro Singh è intervenuto e ha chiesto alle imprese di «considerare seriamente il miglioramento dell’educazione e delle opportunità d’impiego per i settori più deboli». Un invito a farlo volontariamente, prima che il governo sia costretto a imporlo per legge. Premji di Wipro ha detto di apprezzare la preoccupazione per le condizioni degli esclusi. E Ratan Tata, uno dei capitani d’industria più influenti, ha invitato i suoi colleghi «a operare secondo principi e valori: non possiamo creare una grande ricchezza senza fare uno sforzo anche per diffonderla». E, per essere ancora più chiaro, ha aggiunto che «oltre a creare valore per gli azionisti, l’industria ha una responsabilità verso il 60% della popolazione che non è industrializzata e vive in aree rurali».
Il fatto è che in India è estremamente diffusa l’idea che il miracolo economico in corso - il quale in qualche modo riguarda una parte ristretta della popolazione, non più del 25-30% - sia destinato a fallire se non riuscirà a trascinarsi dietro le enormi masse di poveri che vivono nelle campagne e negli slum delle metropoli. E anche molti imprenditori sono convinti che la questione vada affrontata con una certa urgenza, vista anche la tradizione di violenza che la democrazia indiana ha saputo assumere in passato (ci sono senz’altro più maoisti nel subcontinente che in Cina, si usa dire).
Il problema è il modo con il quale si vuole diffondere la ricchezza che si crea. Le quote al 49,5% esistono già per i posti pubblici e molti sottolineano che non solo la burocrazia indiana è tra le più pigre del mondo, ma che gli stessi Dalit sono insoddisfatti della loro condizione di impiegati statali. Il rischio, per le università e a maggior ragione per le imprese, è che un nuovo vincolo faccia fuggire altrove gli investimenti e con loro i cervelli migliori. Già oggi, le condizioni di mercato non sono facili, al punto che un altro campione industriale indiano, la Infosys Technologies, ha appena annunciato di volere assumere ingegneri in Cina: «Vogliamo avere un’alternativa», ha detto uno dei fondatori della società, Kris Gopalakrishnan. «Azioni che riducono la competitività o l’attrattività del Paese sono preoccupanti», ha aggiunto Ravi Venkatesan, presidente di Microsoft India.
Dall’altra parte, le università non sono entusiaste del provvedimento, temono che le dequalifichi, ma ammettono che le quote già in vigore hanno aiutato, con una certa efficacia, migliaia di studenti che, se lasciati in balia del sistema delle caste (abolito dalla legge ma non dai fatti), sarebbero stati relegati al fondo della scala sociale.
Se le decisioni fossero prese come si fa a Pechino, tutto sarebbe risolto (in apparenza). Il bello dell’India, invece, è che democrazia e capitalismo devono camminare insieme.

Danilo Taino


La nostra rivista online

Servizi e comunicazioni

Seguici su facebook
Rivista mensile Edizioni Conoscenza
Rivista Articolo 33

I più letti

Filo diretto sul contratto
Filo diretto rinnovo contratto di lavoro
Ora e sempre esperienza!
Servizi assicurativi per iscritti e RSU
Servizi assicurativi iscritti FLC CGIL