Corriere: I giovani del nostro Sud condannati all'ignoranza
Una vera emergenza nazionale
N elle regioni del nostro Mezzogiorno c'è una ver a e propria emergenza sociale di cui nessuno parla: la povertà di competenze dei giovani. A lanciare l'ultimo allarme è un volume appena pubblicato dall'Istituto Cattaneo «Povertà e benessere, a cura di Andrea Brandolini e Chiara Saraceno». I dati presentati nel saggio di Gianna Barbieri e Piero Cipollone fanno venire i brividi. Quasi un quarto dei quindicenni meridionali non sono capaci di svolgere semplici calcoli aritmetici, ordinare un insieme di numeri, calcolare il cambio fra due valute, leggere un grafico o una tabella. Ancora più grave, il 15% circa non è in grado di interpretare correttamente le informazioni di un elementare testo scritto, di utilizzarle per acquisire altre informazioni. Se non colmano il proprio deficit cognitivo, questi giovani sono condannati ad un destino di ignoranza e di emarginazione.
La misurazione della «povertà di competenze» è stata effettuata partendo dai dati PISA, un'iniziativa dell'OCSE che valuta periodicamente la preparazione scolastica dei quindicenni in una quarantina di paesi. Il punteggio medio dei giovani meridionali è significativamente più basso di quello dei giovani del Centro- Nord, che è invece grosso modo in linea con la media europea. Ciò che emerge per il Sud è davvero un quadro da Terzo Mondo: in tutti i settori valutati (non solo matematica e lettura, ma anche scienze e capacità di ragionamento logico) i punteggi medi delle regioni meridionali si attestano ai livelli di paesi come Uruguay o Thailandia. L'indagine PISA misura le competenze solo di coloro che vanno a scuola. Sappiamo però che al Sud vi sono elevati tassi di abbandono: il 7% circa di quindicenni ha già smesso di studiare. Se tenessimo conto anche di questi ragazzi, la povertà di istruzione delle nuove leve meridionali risulterebbe ancora più elevata.
Naturalmente vi è una quota di quindicenni meridionali che ottengono punteggi alti e che hanno perciò alte probabilità di arrivare alla laurea e di alimentare successivamente qualche circolo virtuoso di «economia della conoscenza » anche al Sud. Ma qui scatta un secondo meccanismo perverso: la fuga dei cervelli. Secondo i dati dell'ultimo Quaderno di ricerca della Svimez, redatto da Mariano D'Antonio e Margherita Scarlato, quasi due terzi degli studenti universitari meridionali s'iscrivono in atenei del Centro-nord (nel 1992 il fenomeno riguardava solo un terzo degli studenti). Molti di questi giovani non tornano più al Sud. E quando non avviene subito dopo la maturità, la fuga spesso avviene dopo la laurea. Su cento studenti che si diplomano in una università meridionale, più di un quarto si trasferisce al Nord per cercare lavoro, soprattutto i laureati in ingegneria ed economia. Se il programma dell'OCSE valutasse anche le competenze dei venticinquenni, il Sud registrerebbe livelli di povertà educativa ancora più elevati: i venticinquenni più bravi se ne sono andati.
Questa drammatica situazione dovrebbe stare al centro del dibattito politico. E dovrebbe essere il punto di attacco più ovvio di una strategia di promozione del Mezzogiorno. Se il Sud non riesce a formare, valorizzare, trattenere (e magari anche attirare) giovani ricchi di competenze, quali possono essere le sue prospettive di sviluppo? L'alta incidenza della povertà educativa ha risvolti negativi non solo sul piano dell'efficienza, ma anche su quello dell'equità: i quindicenni con punteggi da Terzo Mondo (per non parlare di quelli che smettono di studiare) provengono quasi tutti da famiglie svantaggiate: i genitori hanno bassi livelli di istruzione e il bilancio familiare molto spesso non consente l'acquisto dei libri di testo, neppure usati.
In che misura questo stato di cose dipende dal sistema scolastico? Spunti interessanti per rispondere a questa domanda arrivano da un'altra ricerca fresca di stampa (Bretti, Checchi e Filippin, «Da dove vengono le competenze degli studenti?» Fondazione per la Scuola). Al Sud la spesa pro-capite per istruzione non è più bassa che al Nord. Tende però ad essere più bassa la qualità delle strutture scolastiche e i dati dicono che gli studenti che frequentano istituti «poveri» di attrezzature (biblioteche, laboratori, computer) e situati in edifici degradati hanno anche in media punteggi inferiori nelle valutazioni PISA. Sulla qualità degli insegnanti e dei metodi didattici mancano i dati e non si possono attribuire responsabilità precise. Ma gli autori della ricerca notano, giustamente, che l'attuale sistema di incentivi (reclutamento, carriera, retribuzioni) fa sì che «i docenti incapaci finiscano con maggiore probabilità nelle scuole problematiche», con ciò perpetuando lo status quo.
Combattere tutte queste dinamiche non dovrebbe essere una delle priorità dei ministri e delle forze politiche che si dicono di sinistra? In altri paesi OCSE, le indagini PISA hanno suscitato accesi dibattiti, hanno riorientato agende politiche e programmi di governo. In Italia ne parlano invece solo pochi studiosi. Ai quali non resta che registrare nei dati l'inesorabile conseguenza dell'inazione politica: il declino economico e sociale di un'area territoriale che fu e che dovrebbe tornare ad essere il più bel giardino d'Europa.