Corriere: Formazione, a scuola due milioni di italiani
«Troppo pochi». La metà di quanti ne vorrebbe l’Europa. Tanti corsi ma nessun controllo sui risultati
La situazione Il ministro Sacconi: «Non c’è buona occupazione senza un aggiornamento continuo». Bankitalia: un investimento che rende il 9%
Alzi la mano chi non ha pensato ad un certo punto della propria vita di iscriversi ad un corso di formazione. Finite le scuole, usciti dall’università o mentre si sta preparando la tesi, durante un periodo di inattività, dopo la pensione. Tutti ci hanno pensato almeno una volta ma pochi l’hanno poi fatto davvero, nonostante sia sempre più chiaro che la formazione cominciata sui banchi della scuola non dovrebbe più terminare in un mondo complesso che pretende da ogni individuo la capacità di organizzare, selezionare e usare al meglio l’enorme quantità di informazioni e di dati nuovi che riceve ogni giorno.
In Italia le parole «corso di formazione » evocano tre differenti mondi: quello della formazione continua, che si rivolge alle persone occupate, a chi lavora ma vuole mantenere alto il proprio livello di professionalità o vuole raggiungere nuove capacità professionali. Qualche settimana fa il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha detto: «Non c’è buona occupazione senza formazione continua». Come dargli torto? Oggi la formazione continua la fanno le aziende attraverso i fondi interprofessionali (sono diciotto), che il lavoratore si paga da sé lasciando per legge al datore di lavoro il 3 per mille del proprio stipendio. Si tratta di almeno un miliardo di euro, diceva il ministro alla presentazione del rapporto Isfol 2009, soldi gestiti dalle aziende e dai sindacati ma che «non sono delle parti sociali, sono di tutti e vanno usati bene per aiutare il nostro lavoro a rimanere competitivo».
C’è poi la formazione professionale, riservata ai giovani in cerca di un lavoro e ai disoccupati in genere. È quella che assorbe la grande parte di fondi pubblici, quella che finisce non di rado nelle inchieste delle procure per corsi fasulli messi in piedi solo per accaparrarsi i soldi dell’Unione Europea. La metà arriva dal Fondo sociale europeo, un dieci per cento è in capo alle Regioni, che per legge organizzano i corsi, e un 40 per cento viene sborsato direttamente dallo Stato ma speso e distribuito sempre dalle Regioni. La cifra che l’Europa impegna in Italia si aggira attorno ai due miliardi di euro.
Per questi corsi, ma anche per quelli professionali veri e propri, Sacconi ha auspicato una riforma radicale. Alla presentazione del rapporto Isfol 2009 il ministro ha detto: «Tutta la formazione va completamente ripensata, abbandonando il metodo scolastico. Il corso serale come viene concepito ora va cancellato perché a fronte di ingenti finanziamenti si ottengono risultati risibili, soprattutto in termini di ricaduta occupazionale. E finisce che a far festa sono solo i formatori».
C’è infine la formazione permanente, quella di tutti, quella rivolta agli adulti che si iscrivono ad una scuola per «sapere di più, conoscere meglio, perché continuare a studiare equivale a garantire al Paese più crescita e più benessere», dice Francesco Florenzano, presidente dell’Unieda (Unione per l’educazione degli adulti) e dell’Università popolare di Roma.
Tutte e tre le formazioni, intorno alle quali girano parecchi miliardi di euro e quindi molti interessi economici, alla fine dei conti si rivolgono ad un esiguo 6,3 per cento della popolazione italiana, poco più di due milioni di persone, se rimaniamo nei parametri usati da tutti i Paesi europei che considerano nel conto i cittadini dai 25 ai 64 anni di età. Sale al 15 per cento circa se, come ha fatto l’Isfol, vengono contati anche i giovanissimi dai 15 anni di età in su, quelli che però avendo lasciato la scuola sono ovviamente più interessati a seguire un corso per crearsi una professione, e che rientrano quindi nel cosiddetto «apprendistato » .
«Questo 6,3 per cento del 2008, pur se in crescita rispetto al 6,2 del 2007 e al 6,1 del 2006, resta ovviamente un dato troppo basso — dice Sergio Trevisanato, presidente dell’Isfol, l’ente pubblico di ricerca che collabora con il ministero del Lavoro —. E comunque lontano dall’obiettivo di Lisbona che aveva fissato il 12,5 per cento entro il 2010. Obiettivo fallito, quindi. E non per l’Italia. Infatti tutta l’Europa, in media, non raggiunge quel risultato e si ferma al 9,6 per cento ». Tutto il sistema-formazione è da rivedere, secondo Trevisanato, nonostante l’elemento positivo che vede «in crescita il coinvolgimento dei soli occupati con 200 mila persone in più che nel biennio 2006-2008 hanno partecipato ad un corso».
Appena due milioni di italiani, quindi, ogni anno fanno un corso a fronte dei 30 milioni di tedeschi che regolarmente ne seguono almeno uno. E le statistiche poi non ci dicono di che tipo di corso si tratta. Ci sono Regioni che spendono milioni di euro per il moltiplicarsi spesso inutile di corsi per acconciatori o per estetiste, che hanno poi un basso riscontro in termini di occupazione. Solo il Lazio, con l’eccezionale traino di Roma, e il Trentino Alto Adige, di tradizione e cultura tedesca, riescono con il loro 8,5 per cento a testa ad avvicinarsi un po’ alla media pur bassa dell’Europa. Perché? «Perché mancano politiche di sostegno e di incentivo — dice Florenzano —. Inoltre, nulla sappiamo di che cosa accade dopo aver frequentato un corso di formazione professionale. Il lavoro cercato si è poi trovato? Il corso è stato utile? Tutte domande finora senza risposta perché non c’è un monitoraggio concreto sulle finalità del finanziamento ottenuto dalle Regioni. E l’Europa stessa non premia il Paese che riesce a far lavorare di più ma quello che ha speso di più. Più spendi, più corsi hai fatto, più sei stato bravo... Un’assurdità».
La Banca d’Italia ha invece studiato il rendimento della formazione. Ed è arrivata ad un risultato che sorprende ma che ne sottolinea l’importanza: chi investe nella propria formazione ne ricava poi, a lungo termine, un 9 per cento di rientro economico. Una cifra che è molto più alta di quella ottenuta investendo i propri soldi in Bot e Cct.
«Non c’è nulla — dicono alla Banca d’Italia — che dia un rendimento altrettanto alto».
Mariolina Iossa