Contro la retorica delle “eccellenze”
Con la fine dell’anno il rettore della mia università ha firmato il decreto con il quale emana il regolamento e il relativo bando per l’attribuzione delle risorse una tantum stabilite dalla legge Gelmini allo scopo di premiare il merito scientifico
Francesco Coniglione
Con la fine dell’anno il rettore della mia università ha firmato il decreto con il quale emana il regolamento e il relativo bando per l’attribuzione delle risorse una tantum stabilite dalla legge Gelmini allo scopo di premiare il merito scientifico. Sono stabiliti tutta una serie di parametri che prevedono punteggi relativi alle pubblicazioni scientifiche, punteggi attribuiti a varie forme di partecipazioni a progetti scientifici, nonché anche per aver ricoperto a vario titolo diverse cariche accademiche. Non ci interessa qui andare a valutare gli effetti perversi che tali norme – se istituzionalizzate – potrebbero ingenerare nella normale vita accademica (ad es., io non accetterei più di buon cuore di cedere la direzione di una ricerca ad una brava collega, per potermi dedicare agli studi, perché saprei che d’ora in poi ne va del mio stipendio). È importante scorgere invece l’idea di fondo che ci sta dietro e che alimenta anche i continui articoli di giornali nei quali si esalta l’eccellenza di giovani ricercatori che, grazie al proprio talento, sono inevitabilmente andati all’estero; o addirittura si usa a sproposito il termine “eccellente” nei vari settori della vita e delle istituzioni, anche laddove sarebbe sufficiente avere dei lavoratori onesti e dediti al proprio dovere: è quanto è accaduto col recente caso dei vigili urbani di Roma, in occasione del quale si è invocata la necessità di premiare l’eccellenza o di portare avanti i meritevoli. E difatti ve la immaginate la differenza tra un vigile urbano che vi fischia semplicemente e uno che invece vi indirizza una sonata di Beethoven, oppure l’eccellenza di un vigile urbano che non si limita e trascrivervi burocraticamente l’infrazione sul verbale, con un semplice numero, ma invece ve la scrive in versi?
Ma, al di là della celia, questo tanto insistere sull’eccellenza ignora un dato fondamentale: ogni istituzione – sia essa di ricerca o di altro tipo – si regge per lo più non sulle “eccellenze”, ma su persone dotate di buone capacità, anche se certo non di genialità, che le portano avanti con dedizione, senso del dovere, onestà e amore per il proprio lavoro. Non bisogna essere delle “eccellenze” per far ciò e l’Italia non ha bisogno di esse per mettersi sulla retta via, ma di gente che sappia fare il proprio mestiere, senza imboscarsi e lasciare corrompere o lusingare dalle sirene del potere.
La questione diventa ancora più importante e delicata quando si abbia a che fare col campo della ricerca scientifica, per la quale più frequentemente si invocano le “eccellenze”. In questo caso è ben noto che la ricerca di ogni giorno, quella che costituisce, per dirla con Kuhn, la “scienza normale”, ha un ruolo indispensabile affinché le stesse eccellenze possano emergere. Nell’università ci sono decine, centinaia di persone che svolgono in modo onesto il proprio lavoro, fanno lezione in modo efficace, dirigono laboratori, fanno ricerche che di certo non apriranno nuovi orizzonti e nuove prospettive, ma che sono senza dubbio meritevoli e che costituiscono il normale carburante di cui si alimenta ricerca e conoscenza.
Di tutti gli scienziati e i ricercatori esistenti al mondo – varie decine di migliaia – si contano sulle dita di una mano i premi Nobel e sono poche centinaia coloro che brillano nel firmamento per la genialità delle ricerche che conducono e che raggiungono la notorietà nel grande pubblico. Il rimanente, invece, porta avanti il grandissimo organismo della ricerca scientifica, la macchina immensa che macina soldi, ricerche, didattica, alleva nuovi giovani, serve per le piccole innovazioni e i perfezionamenti dei “prodotti scientifici” esistenti. Sarebbe ingiusto e disonesto ritenere che tutti costoro siano dei parassiti e che solo pochi (siano anche il 50% o i due terzi, come a scuola) meritino delle gratificazioni. Sarebbe invece più realistico emarginare solo coloro che – prove alla mano – si esimono dai loro doveri didattici o che nel lungo periodo siano del tutto improduttivi. E per far questo, basterebbe un catalogo d’ateneo o una anagrafe nazionale, dove vengono elencati sia i “prodotti scientifici” sia i vari curricula.
La retorica dell’eccellenza e le misure che si vogliono implementare per favorirla – come se si potessero programmare a tavolino i grandi scienziati e le grandi scoperte, per lo più casuali – fa correre il rischio di spezzare la solidarietà che di solito vige tra coloro che trovano la motivazione del proprio impegno nella passione per la conoscenza, gratificati non da pochi spiccioli in più in busta paga, ma dal giusto riconoscimento che viene tributato al loro lavoro (si pensi a quanto questo fattore sia importante nella scuola). E di converso darà maggiore spazio a tutti quegli opportunisti che vorranno scalare ruoli di prestigio (cariche accademiche o istituzionali nelle scuole, o responsabilità in progetti di ricerca) non per amore del bene dell’istituzione o per passione nello studio, ma solo perché così potranno lucrare qualcosa in più grazie alle proprie rendite di posizione. E anche coloro che non sono interessati a posizioni di prestigio o a cariche di rappresentanza, ma solo a poter in tranquillità continuare le proprie indagini, saranno a forza gettati nella lotteria del concorso per l’attribuzione dell’una tantum, perché altrimenti sarebbero additati come “sfaticati” o “scarsamente produttivi”.
Alla base v’è l’idea – sempre più dominante in politica, in economia e ora nella ricerca e nell’istruzione – dell’uomo solo al comando, del genio che dirige e vede tutto, del talento che con le sue sole forze ci apre orizzonti rosei nel futuro. Mentre invece – come dimostrano per altro verso anche le ricerche sugli effetti negativi della disuguaglianza sulla crescita economica – la ricerca e lo sviluppo sono veramente tali quando si possono basare su un elevato livello medio di qualità e di efficienza nel funzionamento delle istituzioni, sul cui zoccolo duro possono poi formarsi le eccellenze, venire riconosciute e trovare la base materiale per portare avanti le proprie idee innovative. Altrimenti questo insistere sull’eccellenza finisce solo per costituire l’alibi per disinteressarsi del sistema della ricerca nel suo complesso, per ignorare la necessità di migliorarne i meccanismi di fondo, magari investendo più risorse, nel contempo creando l’illusione del “ricercatore fai da te”, da premiare, coccolare e sostenere indipendentemente dal più vasto sistema “ecologico” nel quale esso può crescere e formarsi.