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Concorsi,non varrà solo il voto di laurea ma anche l’ateneo

Rivoluzione nella legge sulla pubblica amministrazione Subito polemica: “Così il titolo non sarà uguale per tutti”

03/07/2015
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la Repubblica

Valentina Conte

ROMA. Il voto di laurea non basterà più. Per diventare dirigenti e funzionari pubblici, conterà anche il pedigree dell’università e la sua generosità o meno nei voti. L’emendamento alla riforma della Pubblica amministrazione, votato ieri alla Camera, è destinato a terremotare non solo i concorsi pubblici, ma anche il mondo universitario e la valutazione delle competenze. Tra le polemiche di chi vi intravede, nella possibile discriminazione tra atenei, un tentativo di abolizione del valore legale del titolo. E chi invece vorrebbe una classe dirigente più preparata e dunque meglio selezionata.
«Non si tratta di abolire il valore legale della laurea», spiega Ernesto Carbone, deputato Pd e relatore della riforma Madia. «Piuttosto di stabilire caso per caso quanto vale un titolo di studio. Se uno fa il concorso in magistratura è giusto che abbia una laurea in giurisprudenza. Ma perché non può diventare un diplomatico se ne possiede una in filosofia? O in fisica e magari ha fatto qualche esame in scienze politiche?». Quesiti che in realtà l’emendamento 13.38, presentato dal deputato pd Marco Meloni e approvato ieri in Commissione affari costituzionali di Montecitorio, non scioglie. Limitandosi a dire che il «mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso ai concorsi» non sarà più sufficiente. Se non «in rapporto a fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato e al voto medio di classi omogenee di studenti». In pratica, per accedere alla selezione pubblica occorrerà non solo ottenere un buon voto finale, ma guadagnato in un’università ben valutata (da chi e come, non si sa) e che possibilmente non sia di manica troppa larga. Se ad esempio la media dei voti di laurea assegnati nell’anno, in quell’ateneo e in quella disciplina, fosse troppo alta, cosa accadrebbe? Il famoso pezzo di carta varrebbe meno? Non potrei accedere al concorso? Sarei fermato già ai blocchi di partenza?
«Attenzione, si tratta di una norma delega», frena Carbone. Fatta cioè di principi generali perché inserita in una legge delega che ha bisogno poi di numerosi decreti legislativi del governo per essere attuata nel concreto. Decreti che poi il Parlamento valuterà, sebbene con mero parere consultivo. Ma la sostanza comunque c’è. Non a caso ieri il governo (presente in commissione il ministro della P.a. Madia e il sottosegretario Rughetti) ha espresso parere favorevole. «Il mio voto di laurea verrà considerato a seconda del voto medio che viene dato nella mia facoltà», insiste Marco Meloni, autore dell’emendamento. «Vogliamo impedire che gli studenti scelgano un certo indirizzo solo perché il meccanismo di valutazione è più generoso».
Il voto minimo di laurea per accedere ai concorsi pubblici, ad oggi, non è previsto da alcuna norma. Ma non è vietato. In alcuni bandi c’è (Bankitalia e università, ad esempio). Certo qui si va oltre. «In modo surrettizio, si introduce l’abolizione del valore legale del titolo», ragiona Gianfranco D’Alessio, docente di diritto amministrativo a Roma Tre. «Se un ateneo dà a tutti 110 e lode allora non conta nulla? Non è dimostrabile. Magari vuol dire solo che gli studenti sono stati tutti bravi, perché no? ». Non la pensa così il governo. Qualche mese fa era stato proprio il premier Renzi a dire che «esistono già università di serie A e di serie B in Italia, dobbiamo avere il coraggio di ammetterlo». E che «rifiutare la logica del merito dentro le università e pensare che tutte siano brave è quanto di più antidemocratico vi possa essere».

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