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Come assegnare i fondi pubblici per la ricercascientifica

Giovanni Bignami

24/06/2016
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la Repubblica

I treni inglesi a differenza dei nostri, hanno le porte che (miracolo!) si aprono giusto a livello del marciapiede. Non bisogna affrontare un salto o un gradone in salita, ma solo fare attenzione allo spazio vuoto che separa il treno dal marciapiede: «Mind the gap!», ti dicono.

La frase, tradotta invece come: «Attenzione al distacco!», è il titolo-provocazione scelto da prestigiosi ricercatori italiani (tra loro la senatrice a vita Elena Cattaneo) per riunirsi oggi a discutere, alla Statale di Milano, sul finanziamento della ricerca in Italia. Il distacco, il gap tra la ricerca pubblica italiana e quella dei Paesi da imitare, aumenta sempre più. A causa, certo, della ristrettezza e discontinuità di mezzi in assoluto, ma anche per la disattenzione cronica ai metodi di finanziamento.
Oltre alla quantità ed alla continuità, è il metodo che conta, e molto, per il rispetto quasi maniacale che dobbiamo al denaro dei cittadini. Per esempio, i finanziamenti pubblici devono essere organizzati sulla base di strategie nazionali, condivise e perciò poi rispettate da tutti. Sarebbe infatti gravissimo se, oltre alla penuria di soldi, dovessimo essere costretti ad accettare assegnazioni fatte al di fuori di strategie condivise, o se, ancora peggio, tali strategie non esistessero o fossero immaginate in uno spaziotempo sghembo rispetto alla realtà nazionale ed europea.
Fuor di metafora: non c’è niente da inventare, una ampia letteratura mondiale dice come e quando si debba finanziare la ricerca. Il quando, per cominciare: il finanziamento deve essere sicuro nei tempi. Se è annuale, perché nella legge di stabilità, deve essere come il moto della Terra intorno al Sole. Non sono accettabili lungaggini burocratiche o patetiche giustificazioni ministeriali per ritardi fino a due anni nella assegnazione di fondi approvati anche dalle commissioni parlamentari. Non sono accettabili ritardi di circa tre anni nella approvazione dell’ultimo Programma nazionale della Ricerca. La Terra, intanto, gira, non si ferma: il mondo va avanti e il giovane italiano, non pagato, va via.
E poi il come, cioè il metodo da usare in Italia. Il denaro pubblico per la ricerca, da noi già pochissimo, non si assegna su spinte emotive, opinioni personali o, Dio scampi, facile populismo. La letteratura di cui sopra spiega i pregi ed i difetti dei metodi top- down o bottom- up, per esempio, ed anche come bilanciarli, oppure se sia meglio innaffiare un prato da far nascere o concimare una robusta quercia già cresciuta (o tutt’e due) a seconda dei casi. E spiega come si assegnino i fondi in modo trasparente: è quasi imbarazzante doverlo ricordare.
Nulla giustifica l’improvvisazione, neanche una necessità specifica di ricerca legata ad una azione di governo. Azione certo benvenuta, purché rientri nelle regole del gioco. Dettarle e farle rispettare deve essere compito di una Agenzia nazionale della Ricerca, qualcosa ancora da costruire in Italia, che è uno dei pochissimi Paesi europei a non averla. Per farla, basta poco: un po’ di cristallo per le pareti e una location al sicuro da urti e spinte, di qualunque tipo. Il mandato: unificare i fondi pubblici per la ricerca, pianificarla anche su indirizzo governativo nel contesto europeo e mondiale, assegnare i fondi secondo i noti criteri internazionali. Non sarà facile, certo, e bisognerà trovare le persone giuste, tante, a rotazione, competenti ma indipendenti, credibili per il loro carisma però oneste… difficile? Se in Spagna, Svizzera o Francia hanno fatto qualcosa che funziona, ce la possiamo fare anche noi, magari imparando da loro.

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