Clil alle elementari? I dubbi dei pedagogisti, il sì di Confindustria
Vertecchi: «Si perde in profondità». Aprea: «Velleitario». La Cgil: «Prima bisogna formare i prof». Ma gli industriali: «Così i nostri bambini saranno più competitivi»
Antonella De Gregorio
La proposta del ministro Giannini di introdurre nella scuola primaria l’insegnamento di una materia in inglese (il «Clil») inciampa in un mare di critiche: «Irrealizzabile e velleitaria», secondo Valentina Aprea, assessore all’Istruzione della regione Lombardia: «Pensiamo prima a garantire l’insegnamento della lingua inglese introdotto dalla Moratti: in qualsiasi forma, purché siano le scuole a scegliere. Non capisco che necessità ci sia di vincolare la lingua straniera a una determinata materia». E poi, si chiede l’assessore, con quali insegnanti si vuole introdurre questa novità? «Stiamo per mettere in ruolo docenti avanti con gli anni, senza una valutazione aggiornata, con competenze vecchie: come pensa il ministro di utilizzarli per insegnamenti innovativi come l’inglese e il digitale?».
«Come lo sci»
Lo aveva dichiarato appena insediata, il ministro, glottologa ed ex rettore dell’Università per stranieri: «Full immersion già alla primaria, perché l’inglese è come lo sci, o lo impari da piccolo o zoppichi tutta la vita». E per «imparare a dialogare col mondo», ipotizzava l’arruolamento di «insegnanti madrelingua o quasi». Anche la sintesi del progetto renziano «la Buona Scuola» dovrebbe contenere, secondo quanto ha anticipato Giannini nei giorni scorsi, la previsione di «veri e propri professori di inglese», nelle classi quarte e quinte, che affiancheranno la maestra, per parlare di Scienze (questa l’ipotesi più probabile) nella lingua di sua maestà. Ma sono proprio la formazione degli insegnanti e la selezione - «che sarà sindacale e burocratica» - a preoccupare Aprea.
I tagli
Intanto, Gianna Fracassi, segretario confederale Cgil ricorda: «c’è stato il taglio degli organici della Gelmini, la cancellazione degli “specialisti”; e per garantire quanto previsto dalla legge, cioè l’insegnamento di una materia Clil alle superiori, si è dovuto abbassare il livello di competenze richieste. Gli ultimi corsi di formazione per la primaria, che risalgono a un paio di anni fa, si sono risolti in 50 ore quasi tutte online. Ma si rende conto il ministro che per insegnare una lingua servono centinaia di ore di formazione?». L’inglese è già materia obbligatoria alle elementari «dalla metà degli anni ‘90 - ricorda Fracassi -. Mi accontenterei di potenziarla, magari introducendo i lettori, dando più risorse e la possibilità agli insegnanti di fare formazione».
La lingua «adatta»
«Abbiamo insegnanti per cominciare, poi si tratterà di orientare i concorsi», ha messo avanti le mani il ministro. Si tratta di «impostare un modello» per la prossima generazione di prof. Un modello che non regge, però, secondo uno studioso come Benedetto Vertecchi, docente di Pedagogia sperimentale presso l’Università Roma Tre. «Dove sono tutti questi insegnanti pronti a svolgere la loro attività in inglese?», si chiede. Certo che « un cattivo insegnante fa danni difficili da riparare». E pedagogicamente? Favorevole al bilinguismo che «impegna a decentrarsi», ad avere una migliore comprensione del mondo, Vertecchi non vede però con favore la materia insegnata in un’altra lingua: «Se studiamo un argomento in inglese, rinunciamo a capire parte di quella realtà», sostiene. E cita un verso di un mistico armeno, Gregorio di Narek: «Signore, non sopprimere l’arte possente di una lingua adatta». «La lingua “adatta”, nei primi anni è la propria: quando si fonda quel patrimonio di pensiero indispensabile per completare la propria enciclopedia personale, che consente di rivedere le esperienze, di esprimere giudizi profondi e meglio argomentati, che guida all’osservazione di sé, degli altri e della natura». Prima lo sviluppo intellettuale, insomma, l’approfondimento della lingua italiana, dell’arte, della musica; poi quello linguistico. «E poi - aggiunge -, perché mai l’inglese? Dovremmo evitare l’idea della lingua globalizzante, per uscire dalla subalternità».
Apprendimento naturale
Non condivide le preoccupazioni di Vertecchi Maria Teresa Guasti, docente di psicolinguistica alla Bicocca di Milano: «I bambini apprendono in modo naturale, hanno un cervello plastico - dice -; imparare in una lingua diversa dalla propria non modifica la profondità del pensiero». E cita studi su bambini che dimostrano che «imparare contemporaneamente due lingue non provoca ritardi nell’apprendimento». Oltre a lavori sugli adulti che provano come non ci siano problemi a trasferire le conoscenze da una lingua a un’altra: «È difficile solo con i numeri esatti: imparare a fare le addizioni in inglese richiede uno sforzo di “traduzione”; non così, invece, la geografia o le scienze», dice. «Il vantaggio di imparare una lingua per usarla è che cresce la motivazione, si impara insieme il contenuto e ad esprimerlo».
Scuola competitiva
Approva incondizionatamente Confindustria: «Una novità che renderà più competitivi i nostri bambini», sintetizza Claudio Gentili, direttore Education. «Certo, se non si può fare perché non c’è personale, il limite diventa oggettivo. Ma si tratta di un buon progetto. L’importante è iniziare, poi si lavorerà sulla qualità delle persone». L’unico rischio, insomma, è che la riforma ne esca rallentata. «Ma è bene partire - dice Gentili -. Possiamo realizzarla anche in dieci anni, facendo entrare più avanti chi padroneggia meglio la lingua straniera».