Chi tradisce l'Università
di Pietro Greco
Duole constatarlo. Ma anche i tecnici, in Italia, pensano che l’università e la ricerca non siano la priorità del Paese. Non uno tra i principali problemi da risolvere, ma la priorità assoluta.Il primo punto dell’agenda politica ed economica. Che anche i tecnici, in Italia e quasi solo in Italia, non lo pensino è la cronaca di queste ore a dimostrarcelo in maniera plastica. Il decreto di legge Stabilità la vecchia legge finanziaria scritto dal governo dei tecnici che è stato approvato ieri, con voto di fiducia, al Senato, prevede solo 100 milioni di incremento per il Fondo di finanziamento ordinario delle università, contro i 400 milioni necessari per il loro normale funzionamento. Il che significa come ha detto il presidente della Conferenza dei rettori, Marco Mancini che molti atenei italiani non avranno nel 2013, i soldi necessari per pagare gli stipendi ai loro dipendenti e/o le bollette ai loro fornitori e/o le borse di studio agli studenti che hanno il torto di essere meritevoli senza essere ricchi. Tuttavia occorre dire che non pensano all’università come alla priorità del Paese anche molti tecnici che non sono al governo, ma sono in Parlamento, anche tra le fila del centrosinistra. Per esempio, lo diciamo col massimo rispetto, Pietro Ichino che lo scorso 10 dicembre, insieme a Daniele Terlizzese, ha firmato, sul Corriere della Sera, un articolo nel quale sostiene che sono i poveri, in Italia, a pagare l’università ai figli dei ricchi. Le tesi è controversa. Ma non è di questo che vogliamo parlare. Quanto della conclusione dell’articolo e dell’argomentazione. Secondo i tecnici Ichino e Terlizzese, infatti: «La scuola è e deve essere per tutti: è lì che si devono davvero creare le pari opportunità. L’università è altra cosa». Sottintendendo che l’università non è e non deve essere per tutti, ma solo per un’elite di meritevoli. Sia chiaro, Ichino e Terlizzese sostengono che l’università deve essere solo per i «veri» meritevoli, indipendentemente dal reddito dei loro padri. E tuttavia è quell’assunto che non ci convince. Che l’università non debba essere per tutti. Magari severa, ma per tutti. Le due posizioni, quella del governo dei tecnici e quella di Ichino e Terlizzese, per quanto molto diverse, hanno un tratto in comune: sottostimano entrambe il valore strategico non solo per la cultura (e non sarebbe poco), me per l’economia e dunque per la società dell’università. Non siamo più nel XIX secolo. L’università non è più il luogo dove si formano le classi dirigenti di un Paese. Non siamo più neppure nel XX secolo: le università non sono più il luogo dove si formano, in maniera democratica, le classi dirigenti estese di un paese. Siamo nel XXI secolo: il secolo della conoscenza. Il secolo in cui la popolazione in età da lavoro tra i 25 e i 65 (anzi, i 70 anni ormai) sarà e in parte è già formata da persone che hanno tra i 20 e i 25 anni di studio alle spalle (ovvero almeno una laurea e possibilmente un master post-laurea o un dottorato). Non è uno scenario accademico. È già una concreta realtà. Nei Paesi dell’Ocse il 40% della popolazione giovanile (tra i 25 e i 34 anni) ha almeno una laurea. La percentuale sale e persino supera il 55% in Paesi molto diversi tra loro, come il Canada, il Giappone, la Russia. Tocca, addirittura, la punta del 63% in Corea del Sud. L’Italia, invece, ha solo il 20% di laureati in questa fascia di età. E la percentuale è destinata a scendere, visto che negli ultimi anni sono scese le iscrizione all’università. E continuerà a scendere, visto che molte università pubbliche correranno il rischio di chiudere o quantomeno di ridimensionarsi. La questione che qualsiasi governo, tecnico o politico, a iniziare dal prossimo deve porsi è: possiamo sostenere questa forbice che va allargandosi rispetto al resto del mondo? Possiamo immaginare un futuro degno per l’Italia, se fra trent’anni la gran parte dei paesi del mondo conterà una popolazione in età da lavoro costituita per oltre la metà di persone con 20 o 25 anni di studio alle spalle e noi potremo contare su una popolazione che per oltre l’80-85% avrà meno di 15 anni di studio alle spalle? Non correremo il rischio di un paese, l’Italia, fuori dall’economia che conta l’economia della conoscenza che sarà costretto a esportare all’estero l’unica ricchezza di cui potrà disporre: tante braccia invece che tanti cervelli? Non vedremo di nuovo i nostri giovani, privi di un titolo alto di studio, andare in Canada o piuttosto in Corea o in Russia per svolgere i lavori che i canadesi, i coreani, i russi, per lo più laureati, non vorranno più svolgere? Cari tecnici, l’università pubblica, con buoni fondi e aperta tendenzialmente a tutti, non ha alternative. Se non il declino definitivo, civile ed economico, del Paese.