Chi ascolta la voce degli studenti in piazza
Nadia Urbinati
Gli studenti universitari venerdì hanno manifestato nelle maggiori città italiane. Come molte altre volte in passato, mettono in campo il diritto di disobbedire e manifestare perché le altre armi della politica sono spuntate e non raggiungono l’obiettivo di far sentire la voce a chi della politica vive, a chi la pratica dentro le istituzioni. Le quali sembrano essere diventate un muro di gomma su cui quel che succede fuori rimbalza, senza produrre effetti. E l’argomento è il solito da anni, ormai: “Non possiamo fare diversamente”. La ragione oggi sta dalla parte dei ragazzi che, stando fuori dalle istituzioni, rivendicano la decisione di scendere in piazza perché manca l’ascolto da parte di chi vive dentro la politica praticata. Le due parti hanno quasi smesso di comunicare: ormai sono due mondi che marciano nell’indifferenza reciproca o, quando cercano di interloquire, si scontrano.
Le forze dell’ordine contro i giovani dimostranti: questi sono i protagonisti di una politica che ha smesso di svolgere la sua funzione di raccordo tra le istituzioni e l’esterno, che ha smobilitato programmi e deciso di immolarsi al linguaggio della necessità. E, interrotto il dialogo, resta la violenza e la criminalizzazione da parte di chi ha il monopolio della violenza stessa. Diceva uno studente: «Non vogliono ascoltarci. Vogliono dire che siamo dei criminali, mentre noi lottiamo solo per il nostro futuro, che non c'è. Io cerco lavoro da sei mesi e non lo trovo. Frequento l'università e faccio fatica a pagarla». Questa è la ragione delle manifestazioni e questi i contenuti che non vogliono essere ascoltati – o l’ascolto non produce altro che la stessa risposta: abbiamo le mani legate dall’Europa, dalle banche, dal mercato. Da tutti. Ma chi ha le mani legate non è sovrano. Se la politica dichiara di non riuscire a farcela porta il peso di una responsabilità, quella di scatenare altre risposte. No. Non è questa la via maestra.
Da diversi anni ascoltiamo la favola della ristrutturazione dell’università e della razionalizzazione della scuola, della costruzione dell’autonomia scolastica, della “funzionalizzazione” dei programmi disciplinari alle esigenze del mercato del lavoro. L’esito è sotto gli occhi di tutti: in pochi anni più del 10 per cento in meno di risorse pubbliche all’istruzione e alla formazione e, insieme, la ridefinizione del significato del “pubblico” per comprendere in esso il privato parificato e, quindi, giustificare l’emorragia dei finanziamenti dalla scuola statale.
Si è anche congegnato di mettere una realtà pubblica contro un’altra: meno soldi alle università per creare pochi e prestigiosi centri di eccellenza. Buona idea se non fosse che quando le risorse sono già poche questa diventa una lotta tra poveri nella quale alcuni pagano di più e altri di meno, e il sistema intero ne soffre. E a pagare tanto è la formazione di base: scuole, primarie e secondarie, e poi l’università (declassata a “liceificazione” rispetto ai centri d’eccellenza). Difficile capire da dove la selezione degli studenti per i centri d’eccellenza peschi, se la formazione di base e universitaria viene penalizzata. Il fatto è che, come Ilvo Diamanti ha più volte sottolineato con dovizia di dati su questo giornale, l’attuale mercato del lavoro italiano oggi premia più chi non ha una laurea che chi ce l’ha. E quindi, se questo mercato del lavoro detta le regole, è prevedibile che ristrutturare la formazione possa significare tagliare le risorse, non usarle in maniera più ordinata e razionale.
Gli studenti non si fanno più ingannare – non credono più alle narrazioni edulcorate di ministri che, da un governo all’altro, stanno, come per un patto scellerato, picconando una delle più importanti ricchezze del paese: la cultura, la scuola pubblica di ogni ordine e grado, l’università e la ricerca. Ai vizi, agli scandali, agli illeciti che hanno gravato sui concorsi e la selezione (segno di una condizione che dilaga in tutti i settori della vita sociale) i ministri, a partire dalla Gelmini, hanno scelto due armi: la burocrazia e i tagli. E l’esito è sotto gli occhi di tutti: risorse impiegate per aumentare le pratiche burocratiche, una scuola pubblica meno qualificata e soprattutto diversamente trattata in ragione dei quartieri, delle città, delle aree del paese, e infine di alcune fasce disciplinari a discapito di altre. Insomma, discriminazione tra cittadini, aree del paese e discipline.
E a questo punto entrano in azione coloro che non credono più nella favola della ripresa dietro l’angolo e dell’impegno del governo per ridare prestigio alla scuola, per investire sulla scuola. “Invertire la marcia” chiedono gli studenti. Che significa impegnare le risorse pubbliche per il futuro del paese e farlo con equità affinché il destino dei giovani non sia predeterminato dal quartiere, dalla famiglia e dalla ragione nella quale sono nati o vivono. La scuola ha la funzione di liberare le energie, non di riconfermare privilegi, magari eliminando preventivamente dalla competizione i molti, così da poter rendere più agevole la corsa al successo di chi dispone di più mezzi. Se la scuola di un paese democratico non riesce a fare questo, chi governa ha fallito. E fallisce anche quando ci trasmette la narrazione dei vincoli europei che bloccano la ripresa, che impediscono le scelte dei governi. Hanno ragione i ragazzi: se la politica rivendica, giustamente, un ruolo guida, deve saper dimostrare di essere capace di coprirlo.