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Cattedre, non escludere i giovani

Fausto Raciti, segretario nazionale Giovani PD

27/08/2012
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l'Unità

In tempi di strettezze economiche riuscire a istruire percorsi per l’assunzione stabile di nuovi docenti per la scuola pubblica è un risultato da accogliere positivamente. Certo, gli errori del passato si riflettono negativamente sulle soluzioni del presente.  In tempi di strettezze economiche riuscire a istruire percorsi per l’assunzione stabile di nuovi docenti per la scuola pubblica è un risultato da accogliere positivamente. Certo, gli errori del passato si riflettono negativamente sulle soluzioni del presente.   E oggi ne leggiamo i caratteri più torvi nella diatriba che ha aperto l’annuncio del concorso. Senza uno diminuzione pesante delle risorse all’istruzione pubblica avremmo potuto evitare questo dibattito annoso, magari avremmo potuto godere di qualche posto in più nel concorso, che presenta un numero troppo esiguo di cattedre disponibili. La Gelmini, che oggi esulta per il concorso, qualche anno fa parlava della docenza italiana come sinonimo di ammortizzatore sociale, come funzione decrescente della qualità del sistema di istruzione pubblica, un corpo da snellire insomma. Giusto per darci qualche promemoria e sgombrare il campo dalle ambiguità. Mentre passava strisciante nell’informazione pubblica l’idea assistenzialistica della scuola, aumentava l’esercito di docenti precari, sempre meno giovani, sempre più sfiancati. Anni trascorsi a spostarsi da una scuola ad un’altra con ritmi imbarazzanti per la qualità della vita e dell’insegnamento. Nel riconoscimento necessario allo spirito di sacrificio e di altissima dedizione all’insegnamento che dobbiamo a tutti i docenti precari, bisogna preservare il futuro dagli errori che loro stessi portano sulla pelle, mentre uno spirito di forte solidarietà generazionale deve arginare la passione per la classica guerra patricida. Fare il docente in Italia non può voler dire ripetere in eterno sacrifici generazionali, per cui si ha il diritto ad aspirare ad un posto stabile solo dopo vent’anni di onorata carriera, a meno che non si espatri. Non vorremmo che ritardare ulteriormente la soluzione di questa vicenda fosse un modo per scaricare sulle spalle delle giovani generazioni la stessa sorte che hanno subito le generazioni precedenti. L’effettiva distribuzione dei posti assegnati dal concorso, rispettivamente ai docenti già presenti nelle vecchie graduatorie e ai nuovi concorrenti, deve essere paritetica. Questo non vuol dire abbandonare come problema irrisolvibile la questione della precarietà. Sia chiaro, le ragioni che hanno alimentato le proteste di qualcuno sono le stesse che negli ultimi anni ci hanno fatto scendere in piazza con i precari del mondo della scuola. Il governo, questo o il prossimo, deve stabilire un percorso robusto per conciliare la stabilizzazione dei precari della scuola e l’immissione in ruolo di una nuova generazione di docenti. Garantire la presenza di concorsi che nei prossimi anni possano esaurire definitivamente le graduatorie vuol dire restituire un sano bisogno di certezze e di prospettive che nell’impegno quotidiano all’insegnamento servono al docente e alla persona stessa. Anche in Italia è possibile una scuola in cui un professore possa avere meno di trent’anni in condizioni di stabilità? O per una volontaria opera di ascetismo collettivo è necessario espiare i mali della scuola sacrificando le prossime tre generazioni? Il buon senso e la ragionevolezza impongono che le scale non si salgano saltando ad ogni passo uno scalino, altrimenti o si cade o ci si deve fermare.


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