“Caro Renzi, la ricerca non vive in un carrozzone”
La controproposta dell’Accademia dei Lincei al progetto di unificare gli enti scientifici
In Gran Bretagna si vota. Chiunque può dire la sua sulle sei sfide per l’umanità da affidare agli scienziati: vincere le paralisi degli arti, sconfiggere la demenza, assicurare acqua e cibo a tutti, battere la resistenza dei virus agli antibiotici, volare senza sporcare l’ambiente. Le ha suggerite una celebrità, l’astronomo Martin Rees, riesumando il «Longitude Prize», il premio assegnato nel 1765 a John Harrison per il cronometro in grado di misurare la longitudine. Stavolta c’è tempo fino a settembre per il verdetto. In Italia, più modestamente, il premier Matteo Renzi (poco prima del trionfo alle urne) ha lanciato una sfida che, tralasciando i destini del Pianeta, si rivolge ai nostri scienziati con un’idea che lui stesso, in sintonia con lo stile giovanilista che lo contraddistingue, definisce «pazzesca »: unificare i centri della ricerca made in Italy e metterli sotto stretto controllo governativo. In questo caso non è previsto un voto popolare, ma della proposta si sta discutendo (com’è naturale). E molto. Per esempio nel «pensatoio» dell’Accademia dei Lincei, che è la più antica accademia scientifica del mondo ed è considerata la massima istituzione culturale italiana. Commenta il presidente, Lamberto Maffei, neurobiologo con un lunghissimo curriculum di insegnamento e ricerca, in Italia e nel mondo: «I dettagli della proposta non li sappiamo ancora, ma temo che l’annunciata “reductio ad unum” possa risultare in un carrozzone». E il professore evoca sia la realtà presente sia il rischio possibile. Il secondo è l’effetto della prima: un’ulteriore bulimia burocratica, come se non bastasse quella che già affligge gli studiosi. «Il rischio è un aumento della burocrazia con il rallentamento delle procedure e tanto tempo perso a riempire montagne di moduli. La ricerca, invece, ha bisogno di essere agile, perché compete a livello internazionale. Nella scienza è impensabile arrivare tardi». Un principio che vale per quella di base e ancora di più per quella applicata. «Arrivare secondi significa spesso non arrivare proprio», sottolinea. Ed ecco la controproposta. «Penso, tuttavia, che un coordinamento tra le varie istituzioni sia necessario e potrebbe aumentare qualità e quantità dei risultati - dice -. Coordinamento fatto da chi?Ma dagli scienziati! E selezionati da chi? Ma dagli scienziati stessi! Per esempio dall’Accademia dei Lincei o dal Miur, il ministero dell’Istruzione. Nella valutazione della scienza la competenza è condizione indispensabile». Quanto al ruolo del governo - sottolinea - «questo può dare indirizzi generali e, a seconda delle necessità del Paese, incentivare un filone di studio piuttosto che un altro. Il coordinamento deve essere tra enti che hanno progetti che si integrano e si completano a vicenda, mettendo insieme strutture e competenze. L’assegnazione dei fondi, poi, deve essere fatta valutando solo ilmerito - aggiunge Maffei - e dando allo scienziato la responsabilità della spesa dei propri fondi». E, pensando a chi si affaccia ora alla professione, chiosa: «Mi si permetta poi di dire che occorre una rivalutazione dei giovani, che devono assumere posizioni direzionali, perché la ricerca è nelle loro mani: sono principalmente loro che hanno l’inventiva e l’originalità, qualità necessarie per fare scienza». Si apre una porta ed entra Giorgio Parisi, uno dei fisici più autorevoli al mondo e con il Nobel Carlo Rubbia unico fisico italiano membro della National Academy of Sciences degli Usa. È anche presidente della «Commissione sui problemi della ricerca» dei Lincei e sta preparando un documento sul tema, percorso dalla stessa logica cristallina a cui è abituato negli studi quantistici. Nessuna rivoluzione - recita - ma «piccoli e precisi provvedimenti » con l’obiettivo di trasformare l’Italia in un «Paese accogliente per la scienza »: tra gli altri, l’aumento dei fondi, il principio di responsabilità dei ricercatori (l’«accountability »), la semplificazione delle procedure, l’osmosi laboratori-industria. «Ricordo la riforma dell’allora ministro Berlinguer, con la riduzione delle branche del Cnr a un centinaio, e quella Moratti con l’unificazione del piccolo Infm, l’Istituto per la fisica della materia, con il più grande Cnr - dice Parisi -. La motivazione era contagiare il secondo con le buone pratiche del primo, ottenendo invece l’opposto. E alla fine si sono sovrapposti due livelli di burocrazia». Anche Parisi, come Maffei, chiede un intelligente coordinamento (che al momento non esiste). «Si pensa ingenuamente che la ricerca dipenda solo dal Miur,ma non è così. In biomedicina, per esempio, l’Istituto superiore di Sanità si affianca al ministero della Salute,mentre in altri settori i fondi arrivano anche da quello dell’Agricoltura e dalle Regioni. L’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia, poi, dipende dal dicastero dell’Economia e l’Enea da quello dello Sviluppo ». La soluzione? «Un centro di coordinamento, capace di elaborare un piano nazionale triennale - che sia un vaccino per l’Aids o l’esplorazione del Genoma - e che metta in campo le cifre» (sennò tirarle fuori dalla Finanziaria di turno resta un lavoro tanto certosino quanto frustrante). E non solo. L’altro compito fondamentale che Parisi gli attribuisce è l’elaborazione delle regole per bandi e concorsi. Una forma di standardizzazione contro il federalismo demenziale delle norme. E allora, osservando il problema da questa prospettiva, che si tratti di Cnr (il Consiglio nazionale delle ricerche), Infn (l’Istituto di fisica nucleare) o Inaf (l’Istituto di astrofisica) non ha senso fonderli. «Penso a un piccolo comitato, una quarantina di scienziati al massimo, che abbia il quadro generale della ricerca e sottragga potere alle burocrazie ministeriali - spiega Parisi -. Devono essere i ricercatori a prendersi la responsabilità tecnica dei singoli progetti, mentre al governo rimane quella politica di indirizzo generale».Maffei annuisce e suggerisce il modello americano dei National Institutes of Health. Ora riparte la corsa contro il tempo per provare a trasformare le idee in fatti. Al «Longitude Prize» ci si è dati cinque anni, noi italiani ne abbiamo infinitamente di meno.