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Cari Ministri la Scuola non è (solo) affar Vostro

I ministri cambiano, i problemi della scuola restano

01/03/2014
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Corriere della sera

Orsola Riva

I ministri cambiano, i problemi della scuola restano. In una girandola di personalità anche carismatiche (siamo al terzo rettore universitario in poco meno di due anni e mezzo), si moltiplicano gli annunci ma si fatica a intravvedere un’idea organica di scuola.Basti pensare allo psicodramma del bonus maturità nei test delle facoltà ad accesso programmato: decretato da Francesco Profumo, eliminato in corsa da Maria Chiara Carrozza e che Stefania Giannini ora vorrebbe reintrodurre...  In assenza di una politica educativa se non ambiziosa almeno saggiamente realistica, il campo viene occupato dai tifosi (spesso veri e propri hooligan ) delle diverse squadre. È così che il dibattito si fossilizza sullo scontro fra i sostenitori della cultura umanistica e quelli della formazione tecnica, in un moltiplicarsi di appelli a favore della filosofia e della storia dell’arte o contro il latino e il greco. Chi rivendica che il compito della scuola è di formare cittadini consapevoli, chi fa presente che in un momento di crisi bisognerebbe creare almeno una passerella fra il mondo della scuola e quello del lavoro, potenziando tirocini e stage.
Nell’ultimo giro di poltrone è rimasta appesa anche la sperimentazione del liceo di quattro anni autorizzata dal ministro Carrozza in una manciata di scuole pubbliche e paritarie. Pensata in un’ottica di spending review , ha incontrato da subito la ferma opposizione dei sindacati che lamentavano la perdita, così, di decine di migliaia di posti. Ci aveva già provato Luigi Berlinguer, il quale pure aveva tentato di accorciare il percorso di studi, lasciando però intatto il liceo e accorpando invece elementari e medie in un ciclo unico di sette anni. Nel successivo passaggio di mano con Letizia Moratti, la riforma divenne lettera morta.
E ora? Cosa succederà del liceo di quattro anni nel passaggio fra Carrozza e Giannini? Il ministro finora non si è sbilanciato: prima ha detto che l’idea non la entusiasmava, poi ha corretto il tiro dicendo che non ha nulla in contrario ma vuole prima «approfondire la questione». L’impressione è che affrontare una riforma dei cicli della scuola in Italia sia più complicato ancora che immaginare una riforma dei cicli economici.
E allora a Matteo Renzi, che dice di voler rilanciare il Paese partendo proprio dalla scuola, vorremmo dire che va bene mettere mano ai muri, ma poi, subito dopo, bisognerebbe iniziare a pensare come aggiustare le cose dentro la scuola. Vogliamo rendere i nostri giovani più competitivi sul mercato del lavoro tagliando un anno di scuola? Bene: ma allora ci si rimbocchi le maniche e si metta mano a un ripensamento più complessivo dei «curricoli» con un occhio particolarmente attento alla scuola della preadolescenza, ovvero le medie, da molti, e con buone ragioni, segnate a dito come l’anello debole della scuola italiana. Il rischio altrimenti è che il taglio si traduca in un’amputazione che costringerebbe a fare di corsa in quattro anni quello che prima si faceva in cinque.
Un’amputazione tanto più pericolosa perché, da Berlinguer a Maria Stella Gelmini, la scuola italiana ha già subito due importanti interventi chirurgici: il primo ha dato il via, con l’autonomia, a un decennio e più di sperimentazioni molto creative ma altrettanto disordinate, tanto che alla fine si contavano 900 indirizzi diversi. La seconda ha avviato una necessaria semplificazione, raggruppando i diversi indirizzi all’interno di dieci «percorsi» principali, sei licei, due istituti tecnici e due professionali. Ma è un cambio, quest’ultimo, di cui non conosciamo ancora gli esiti (andrà valutato quando, l’anno prossimo, si diplomeranno i primi ragazzi del «ciclo Gelmini»).
E allora va bene dire come fa Renzi che bisogna ridare valore sociale alla figura del professore, ma una chiamata d’intenti non può bastare. Tocca alla politica farsi carico di un’emergenza educativa che troppo spesso viene scaricata sulle spalle dei soli docenti. E per farlo il governo, e segnatamente il ministro Giannini, deve avere il coraggio di ripensare la scuola in modo globale, tenendo conto delle istanze dei docenti ma avendo come unico obiettivo i ragazzi. Che sono i cittadini di domani, ai quali la Costituzione riconosce il diritto-dovere del lavoro. Non basta ricalibrare di volta in volta in un mix diverso le materie di studio: un po’ più di inglese qui, un po’ più di informatica là. Bisogna immaginare un percorso di formazione che dalla scuola d’infanzia all’ultimo anno delle superiori sia teso a preparare i ragazzi per il dopo, dando loro non solo le competenze ma anche le capacità umane necessarie per essere forti in un mercato del lavoro sempre più asfittico. E per farlo ci vogliono idee, e soldi.

 


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