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#BuonaUniversità. Atenei salvati dai precari, e il governo pensa a un jobs-act

Tre passi allo studio per una mini-riforma che "sottragga gli atenei ai vincoli della pubblica amministrazione". E già quest'anno molti corsi saranno sulle spalle dei docenti precari e spesso non pagati: moltissimi titolari in pensione e turnover bloccato

05/04/2015
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la Repubblica

Salvo Intravaia

Insegnamenti a rischio. E l'università a corto di docenti chiede aiuto ai volontari. Così, dal prossimo anno accademico, per il milione e 700mila studenti iscritti negli atenei italiani le probabilità di sostenere gli esami con un professore a contratto aumenterà. Ma il governo, dopo la Buona scuola, ha in mente di lanciare anche la Buona università. Come ha anticipato l'Huffingtnon Post, l'esecutivo sta lavorando su una riforma del reclutamento universitario. Perché, secondo la senatrice del Pd Francesca Puglisi - responsabile scuola, università e ricerca nella segreteria nominata da Renzi - "gli atenei sono afflitti da troppi vincoli e troppa precarietà che ne soffoca l'autonomia".

Lo scorso 28 febbraio il Pd ha organizzato YOUniversity. Lab, giornata di ascolto del mondo universitario, in cui sono state individuate "alcune priorità", spiega la Puglisi. "Occorre sottrarre l'università dai vincoli della pubblica amministrazione restituendole autonomia. Occorre ringiovanire gli atenei e semplificare il percorso per arrivare in cattedra con un contratto a tutele crescenti, attraverso step di valutazione. Occorre rivedere il sistema di diritto allo studio per assicurare in tutte le regioni livelli essenziali delle prestazioni, che vanno tracciati, perché non accada più che capaci e meritevoli privi di mezzi, non possano avere accesso ai più alti gradi di istruzione". Tre passi fondamentali da cui passerà la mini riforma dell'università targata Renzi.

"All'inaugurazione dell'anno accademico di Bologna - aggiunge la senatrice del Pd - Matteo Renzi ha detto che il 2015 sarà l'anno costituente dell'Università". Ma quella che si profila fino al 2017/2018 è una istruzione universitaria sempre più sulle spalle dei docenti precari, che spesso non percepiscono neppure un euro per le lezioni che svolgono. Lo fanno per il prestigio. E' lo stesso ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, a lanciare il grido d'allarme sulla situazione che si è venuta a creare nelle università dopo il blocco del turnover voluto dalla collega Mariastella Gelmini. Lo scorso 27 marzo la Giannini ha emanato un decreto che alleggerisce i parametri per l'accreditamento dei corsi di studio universitari a partire dal 2015/2016.

Senza questo intervento, molti insegnamenti sarebbero stati a rischio. E mentre le tasse universitarie salgono la ministra comunica che "considerata l'esigenza di prevedere un temporaneo alleggerimento degli indicatori relativi alla docenza minima necessaria per gli atenei la cui offerta formativa rischia di essere pregiudicata dalle limitazioni in materia di turnover previste dalla normativa vigente", "ai fini della verifica del possesso del requisito di docenza per l'accreditamento dei corsi di studio" è possibile conteggiare non solo i professori ordinari, quelli associati e i ricercatori, ma dal prossimo anno anche i docenti a contratto. Le norme introdotte dalla riforma universitaria del governo Berlusconi stabiliscono che per avviare un corso di studi occorre potere contare su un certo numero minimo di insegnanti.

Ma con i pensionamenti degli ultimi anni e il mancato turnover il rischio che non possano partire alcuni corsi è più che una semplice ipotesi. Così, il ministro ha deciso di correre ai ripari. Anche se il precariato universitario si sta allargando a macchia d'olio. E non è detto che il provvedimento appena emanato dalla Giannini riesca a garantire tutti gli insegnamenti in vigore. In un decennio  -  dal 2003 al 2013  -  i docenti ordinari e associati, gli unici ad avere l'obbligo di insegnare, sono calati del 18 per cento. Secondo una stima piuttosto prudenziale dello stesso ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca entro il 2016 lascerà la cattedra un altro 14 per cento dei 13mila professori ordinari ancora in servizio. E senza un adeguato turnover nel 2018 il loro numero calerà ancora.

Stesso discorso per professori associati e ricercatori, che spesso sono costretti ad insegnare trascurando l'attività di ricerca per cui sono stati assunti. Nel 2003, i professori a contratto erano 22mila e rappresentavano poco più un terzo dei professori: ordinari, associati e a contratto. Nel 2013, il loro numero è salito a 27mila ma nel frattempo ordinari e associati sono scesi a poco più di 28mila: un docente a contratto per ogni ordinario o associato. Se non ci fossero i ricercatori e gli insegnanti a contratto a salvare la baracca gli atenei non potrebbero garantire i 170mila insegnamenti impartiti ogni anno. E con gli organici che si assottiglieranno ancora saranno i docenti a contratto salvare gli atenei. Ammesso che si riescano a trovare tutti quelli di cui le facoltà  -  diventate nel frattempo "scuole"  -  avranno bisogno.
"Da subito avevamo espresso - afferma Alberto Campailla, portavoce di LINK  -  Coordinamento universitario  -  pesanti critiche sul sistema di accreditamento dei corsi. L'idea di fondo, cioè quella di vincolare un determinato numero di studenti ad uno specifico contingente di professori, è di per sé un principio corretto che applicato in un regime di blocco assunzionale e scarse risorse, porta molti corsi a non poter più soddisfare i criteri di accreditamento e quindi a rischiare di non poter più erogare la propria offerta formativa". "Ma la risposta del ministero non è quella che ci si potrebbe aspettare per risolvere alla radice il problema: invece di permettere agli atenei di assumere un contingente aggiuntivo di docenti, si preferisce una soluzione tampone inserita nella miope ottica dell'emergenza, che preferisce utilizzare nuovamente figure precarie per sostenere un sistema ormai al collasso per la mancanza i fondi".
  


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