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Bulli e vecchi merletti

sulle punizioni e sul caso di Palermo

01/07/2007
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Cari colleghi,

intervengo sulla questione di Palermo.
Per prima cosa non capisco perché accettiamo di parlare di una
`attempata signora" e non di una professionista di lunga esperienza,
quasi che dovessimo avere indulgenza verso l'età della persona e non
capire il problema professionale che si pone. Questa signora, cioè
questa professoressa, potrebbe avere non più di 52-55 anni (30 anni di
carriera fissando a 22-25 l'ingresso in ruolo). Non riesco a vederla
come attempata o nata in un altro secolo: si è formata a cavallo degli
anni settanta, in piena e vituperata epoca di contestazione e
libertarismi vari. In più vedo che è intervenuta su un tema
particolarmente scottante, non tanto quello del bullismo quanto quello
dell'omofobia, e lo ha fatto senza mezzi termini e senza far finta di
non capire come purtroppo fanno quelli che con il bullismo e
l'omofobia hanno qualche conto aperto. (non ci dimentichiamo che forme
di "nonnismo" e di derisione omofoba sono all'ordine del giorno anche
tra persone che si ritengono culturalmente evolute e personalmente
mature). Quindi non ho dubbi che non si tratta di una attempata
signora ma di una professionista che ha affrontato seriamente un
problema serio.

Ha dato la punizione giusta o no?
Premessa: lavoro da dieci anni nel Progetto Chance, i cosiddetti
`maestri di strada'; i nostri ragazzi sono solo e soltanto quelli che
hanno lasciato o sono stati indotti a lasciare la scuola a seguito di
episodi in cui la parolaccia o lo sgambetto non era rivolto solo al
compagno, ma reiteratamente al docente o al preside. Da noi succedono
ogni giorno cose molto più pesanti. Noi lavoriamo sistematicamente ad
analizzare questi episodi, a capire i nostri errori, ad elaborare
risposte efficaci. Ci sono due massime che uso con i miei colleghi
(svolgo una sorta di supervisione pedagogica sul lavoro dei gruppi di
docenti):
primo: nel nostro mestiere non tramonta il sole se non abbiamo tradito
almeno tre volte i principi in cui crediamo. La relazione con gli
adolescenti è fatta apposta per far perdere la pazienza ad un santo.
Non possiamo fustigarci più di tanto.
Secondo: qualsiasi scelta hai fatto, poiché sei un professionista
attento, era l'unica possibile in quel momento. Noi lavoriamo non per
stigmatizzare l'errore, ma per capire se la prossima volta possiamo
dare una risposta più adeguata. Il lavoro di gruppo che si fa con i
docenti serve per elaborare risposte sempre nuove. Anche se gli errori
hanno di bello che sono sempre nuovi, ci riesce di migliorare il
nostro modo di lavorare e il nostro modo di elaborare in tempi rapidi
anche gli errori.
Quindi penso che la collega abbia fatto la cosa migliore che potesse
fare in quella situazione, così come ogni giorno centinaia di migliaia
di insegnanti attenti fanno la cosa migliore che possono fare in una
situazione che è il più delle volte di isolamento e di difficoltà.
Quindi nessuno ha da darle lezioni.
Altra cosa sono quelle persone – che non definirei né docenti né
educatori – che vanno a scuola pieni di pregiudizi, che vanno a scuola
per combattere una qualche loro battaglia ideologica, che vanno scuola
a scaricare sui ragazzi frustrazioni raccolte in giro per un mondo che
quanto a frustrazioni non ci fa mancare nulla. Quelli sbagliano anche
quando sembrano nel giusto perché non amano i giovani, non amano il
loro lavoro e mettono fiele in tutto quello che fanno. E i ragazzi li
fiutano e rifiutano a distanza.

Ora, sgomberato il campo dai giudizi e dalle etichette mi chiedo
qualcosa a proposito della punizione adottata.
Primo - Non mi chiedo se sia giusta, non mi chiedo neppure se sia
efficace rispetto a quel comportamento, mi chiedo se sia una risposta
educativa; se sia una risposta che fa crescere la giovane persona e
soprattutto se aiuta questa persona a raggiungere un migliore livello
di integrazione del sé e delle proprie condotte.
Secondo – Mi interrogo sul concetto di punizione. Mi è molto più
chiaro il concetto di repressione, ossia quello di una azione che
impedisce la realizzazione di offese alla legge, alla persona, alla
comunità. Punizione invece ha il sapore di una sorta di espiazione,
che quindi dovrebbe portare ad una interiorizzazione delle dolorose
conseguenze dell'errore. Ma se questo è, non si tratta di una risposta
educativa ossia di un mezzo per far crescere, ma di un mezzo di
contenimento e contenzione che non attiva il soggetto ma tende ad
indurre un suo stato di obbedienza alla regola e soggezione alle
autorità che la impersonano. Ma ha mai funzionato questo? Ha mai
funzionato una legge morale gestita dal padre punitivo e vendicatore
se questa non era ospitata dentro di sé? (il cielo sopra di noi la
legge morale dentro di noi mi pare dicesse un filosofo di un certo
rilievo, peraltro molto mite).
Quando infliggiamo al reo una punizione, una sofferenza che lo
dovrebbe aiutare a ricordare che quella azione non va fatta, in realtà
rischiamo di rafforzare l'odio per la `causa' di quella sofferenza che
è la vittima dell'azione illecita; la lettura è più o meno di questo
tipo: per colpa sua – il gay o preteso tale, il nero, il terrone, …. –
e della "congiura" che lo protegge io sono stato punito. Ciò che rende
possibile la violenza sull'altro è l'incapacità di sentire o vedere la
sofferenza dell'altro e l'essere centrati solo sulla propria
sofferenza. La punizione raggiunge quindi l'effetto opposto a quello
desiderato: rinforza l'isolamento e l'incapacità di entrare in
relazione con l'altro; rinforza l'odio ed il rancore verso il diverso
che diventa progressivamente il rappresentante del Male in assoluto.
Questo tipo di punizione è quindi collusivo, accetta il gioco del reo
e non ne scardina la logica, mentre ci illudiamo di punirlo in realtà
ci alleiamo con i suoi sentimenti regressivi e distruttivi. Il
risultato finale di un processo reiterato di questo tipo è il perfetto
fascismo, o, se vogliamo evitare riferimenti politici, la perfetta
personalità autoritaria: violenta, sessuofoba, omofoba, etnocentrica,
maschilista.
Troppo spesso gli adulti in genere e gli educatori più o meno
improvvisati si lasciano travolgere dai giochi innescati dagli
adolescenti e dalle loro provocazioni, con grande sollazzo di questi
che vedono una intera nazione impegnata a schierarsi sui due fronti
della linea …. del cesso. (ah! Bei tempi quando la retorica era "la
linea del Piave")
In questo ed in altri casi vedo un affannarsi intorno alla sanzione
dei comportamenti ( "schifosa violenza" bulletto, prepotente, autore
di reato ….) come se essi nascessero solo dalla mancata sanzione; e
come sempre ci sono due partiti: la tolleranza e il rigore. E se
provassimo con il partito dell'educazione, se provassimo a capire sul
serio cosa sta succedendo, se provassimo a partire dalla profonda
difficoltà educativa del giovane in questione nonché da quelle del
suo eccellente genitore.
Insomma vedo che, come troppo spesso accade, le ragioni dello
schieramento e le ragioni della militanza, ancorché di una militanza
civile e tollerante, si sovrappongono al problema educativo, la logica
"bellica" della contesa politico-morale ci fa dimenticare l'origine
stessa della questione: la difficoltà del giovane a crescere, la
difficoltà di un docente e di una famiglia a svolgere una azione
educativa efficace.

Come affrontare la situazione .
Innanzi tutto ogni volta che c'è una violazione delle regole
elementari e naturali di convivenza c'è una doppia ferita: una nel
tessuto di relazioni intorno al ragazzo ed un'altra nello sviluppo
della persona. La paura omofoba non deriva da pregiudizi sociali, ma
molti pregiudizi sociali hanno origine nella paura omofoba non
elaborata. La paura omofoba è innanzi tutto un timore ed una
incertezza circa la propria identità, in un certo senso è connaturata
al processo di crescita e all'incertezza propria di quella età. Un
ragazzino o una deputata al parlamento che vogliono impedire
l'ingresso al bagno dei maschi (o delle femmine) di una persona
dall'identità sessuale diversa o incerta - vera o presunta - è una
persona che teme una sorta di "contagio cognitivo"; teme che
dall'incertezza del confine tra i bagni derivi una incertezza nella
linea di separazione tra i sessi e quindi in generale una incertezza
sul confine tra ciò che è di una qualità e ciò che è di un'altra
qualità, tra ciò che è bene e ciò che è male. I giovani adolescenti
vivono ogni giorno una tensione quasi intollerabile tra emozioni
opposte e ancor di più si dibattono in situazioni intricate e
confusive. Il giovane bullo ed omofobo ( non lo sappiamo, ma potremmo
aggiungere al suo repertorio comportamentale l'etnocentrismo e il
maschilismo) vive più di altri questa tensione; probabilmente vive in
un ambiente culturale in cui la certezza dei confini e delle
distinzioni sociali è assunta come principio regolatore di ogni
condotta, e quindi vive con particolare difficoltà la propria
condizione di confusione ed incertezza, al punto di non riuscire ad
elaborarla; quindi la agisce attraverso la violenza: infligge ad altri
la sofferenza che non riesce ad elaborare nel suo animo. Cerca fuori
una risposta che non trova dentro, ed il più delle volte trova
colpevole tolleranza o dannoso rigore, mai risposte.
Dunque se il problema è questo noi abbiamo insieme un problema di
integrazione sociale e di integrazione della persona, di costruzione e
ricostruzione di una identità che sappia affermarsi anche nelle
situazioni confusive e in condizioni di incertezza. Abbiamo dunque un
problema educativo, un problema che riguarda le condotte di vita e non
semplicemente un problema cognitivo. Abbiamo anche un problema
cognitivo ossia la necessità di proporre modelli di pensiero dinamici,
che mettano in grado di gestire situazioni complesse e che non
identifichino le necessarie astrazioni concettuali con la complessità
del reale. Un pensiero lineare, geometricamente perfetto è
intrinsecamente produttore di stereotipi.
Il primo punto è quindi prendere coscienza dell'errore, riuscire ad
esprimere il dolore e la confusione che sono all'origine di un agito
violento. Quando parlo di questo parlo di cose anche più gravi, parlo
di coltelli portati a scuola, parlo di violenze fisiche gravi, parlo
di pistole `giocattolo' che sembrano vere e che come tali possono
essere usate per minacciare; parlo di violenze verbali e molestie
sessuali nei confronti dell'altro sesso (con una netta prevalenza
maschile, ma molte ragazze non sono da meno). Quindi non si tratta di
una discussione accademica ma di eventi veri. Questa presa di
coscienza può essere solo sociale, ci vuole un luogo in cui attraverso
la condivisione ciascuno si renda conto di non vivere in solitudine le
contraddizioni ed il dolore; un luogo dove incontro qualcuno chi mi
guida ad uscire fuori da uno stato in cui emozioni elementari
devastano continuamente le fragili costruzioni razionali, le incerte
relazioni sociali. Il senso morale è innanzi tutto il senso di una
reciprocità, il riconoscere se stessi nell'altro, nel sentire il
dolore dell'altro. Senza una base emozionale condivisa nessuna
comunità vive, nessuna regola è fondata.
Nella nostra scuola sperimentale abbiamo uno spazio di discussione
sistematico con gli allievi secondo un appuntamento fisso settimanale
e talvolta anche ad horas. In questo spazio si discute soprattutto di
come vive la piccola comunità di giovani allievi, docenti,
educatori-tutor; di quali emozioni sono in gioco, di quali lacerazioni
ci siano nelle relazioni e nell'animo di ciascuno. In questo modo
abbiamo messo a confronto la vittima con i carnefici, abbiamo
stroncato sul nascere episodi di bullismo e comportamenti sessuali da
branco. Tuttavia le violazioni e le lacerazioni ci sono e sono
pesanti. Cosa fare? Se noi siamo riusciti a costruire attraverso il
confronto sistematico una piccola comunità, ogni lacerazione nel
tessuto diventa una sorta di `scomunica' (i nostri ragazzini del resto
usano il termine `scompagno' per mettere qualcuno fuori le regole
dell'amicizia): noi sottolineiamo la reciprocità della scomunica: il
singolo non riconosce la comunità come propria e la comunità non
riconosce il singolo come proprio membro. Da un movimento espulsivo
reciproco occorre generare un movimento di ricomposizione, un
appetenza del gruppo a ricostituire la propria unità che diventa anche
spazio interiore di ciascuno a riaffermare una identità più forte
attraverso ciò che il gruppo aiuta ad elaborare. Il lavoro
dell'educatore consiste appunto in questo, nell'accompagnare il gruppo
ed il singolo a ritrovare se stessi ogni volta che ci si perde, ogni
volta che i "mal di pancia" - le emozioni elementari - prendono il
sopravvento sul pensiero e sui legami.
Tutto questo lo chiamiamo "riparazione", ossia un movimento teso a
riparare quanto si è lacerato, Sotto questo aspetto se noi vogliamo
ritornare al termine `punizione' potremmo affermare il "diritto alla
punizione" come diritto a poter essere riammessi nella comunità; anzi
potremmo dire che la comunità istituisce la nozione stessa di diritto
come possibilità di regolare inclusioni ed esclusioni. La riparazione
porta con sé anche gesti concreti tesi a ripristinare `lo stato dei
luoghi': luoghi fisici, luoghi dell'animo. Quando ci sono danni
materiali i ragazzi possono anche essere chiamati a ripararli
trasformando questo lavoro in una vera e propria unità didattica e non
semplicemente una sanzione da pagare. Oppure, e questo è più
significativo, ci sono formali scuse (non le abbiamo imposte ma ci
vengono offerte spontaneamente dai giovani quando la discussione
sull'errore ha raggiunto il suo scopo) o riconoscimento pubblico
dell'errore. In questo modo, attraverso la rievocazione e la
ricostruzione dell'errore e dei suoi motivi, l'errore stesso può
essere `archiviato' il giovane riprende in mano il processo di
crescita della persona e il suo posto nella crescita del gruppo.
Ancora più interessante è la ricostruzione e la riflessione su tutto
il processo di rielaborazione dell'errore, perché in qualche modo si
prende coscienza che la `sanzione' è in realtà un aiuto a rientrare,
che il gruppo ti offre una possibilità di riparazione. In questo modo
senza che ce ne accorgessimo abbiamo istituito una sorta di `corte di
appello' e di "giuria popolare": quando ci sono violazioni gravi e
ripetute e si verifica la quasi impossibilità a lavorare insieme
diventa necessario che la persona segua un percorso diverso uscendo
fuori dal gruppo e dal nostro lavoro sperimentale, a meno che il
gruppo degli allievi, compreso il `reo' non decida di assumersi
l'onere di aiutare questo a restare in limiti accettabili. In questo
modo siamo usciti fuori dalle secche di scelte o troppo drastiche o
incoerenti, e progressivamente siamo riusciti a riavvicinare giovani
altrimenti irrecuperabili.
In tutto questo lavoro noi svolgiamo una attività didattica
fondamentale: usiamo la parola in modo efficace - in modo
contestualizzato, in cui il referente cui la parola si riferisce è
vivo, presente, pervasivo - impariamo ad affrontare il
contraddittorio e realtà contraddittorie, impariamo vedere le cose da
punti di vista diversi. Il tutto non attraverso l'analisi delle forme
retoriche ma attraverso una accesa pratica di discussione e tutto
questo diventa anche concreta esercitazione di italiano nel momento in
cui si stendono dei verbali, in cui si svolgono riflessioni scritte
oppure si riflette sulle strutture linguistiche usate.
Queste attività, prima in forme embrionali ed irriflesse, poi in forme
sempre più consapevoli noi portiamo avanti da ormai dieci anni e si
sono rivelate abbastanza efficaci. Ci sono ancora molti e gravi
limiti, ma sarebbe lungo parlarne.

E' invece interessante un'altra questione: a quale disciplina
scolastica si addice questo lavoro?
Abbiamo esteso questa pratica a percorsi formativi integrati
sperimentati in alcuni istituti professionali e tecnici di Napoli.
L'interrogativo che ci è stato posto è se si trattasse di ore di
italiano oppure no e quindi a quale disciplina attribuire il monte
ore e a quale insegnante affidare il compito.
Alcuni presidi hanno insistito ad ancorare questo lavoro alla
struttura delle discipline: se è italiano deve esserci l'insegnante di
italiano anche se non conosce nulla delle tecniche di ascolto attivo e
della conduzione di gruppi di discussione sulle emozioni.
In altri casi i gruppi di discussione sono stati inseriti in un
"percorso di cittadinanza in cui queste ore sono state considerate una
pratica partecipativa e quindi affidate all'ambito delle conoscenze
socio-antropologiche e gestite da un docente che almeno sulla carta
aveva qualche competenza in merito alla gestione delle emozioni e
delle relazioni.
In altri casi sono state considerate attività extracurriculari e
quindi gestite da educatori-tutor presenti nel progetto in quanto la
sperimentazione lo prevedeva.
In questo problema classificatorio si nasconde un interrogativo molto
più importante: una pratica educativa che intervenga sulle condotte
personali e non si limiti a fornire conoscenze in merito a questioni
generali non contestualizzate, può realizzarsi nel contesto della
scuola così come è oggi organizzata? Le condotte sociali e personali
possono essere oggetto di un `insegnamento` specifico, intenzionale ed
esplicito oppure esse devono restare incapsulate come conoscenze
tacite ed implicite nelle diverse discipline? Il voto di condotta deve
restare di tutti e di nessuno, unica "materia" che non ha un proprio
docente o comunque una propria figura di riferimento?
E ancora più a fondo: lo sviluppo del senso morale, l'adozione di
condotte civili sono una conseguenza univoca e necessaria
dell'attività di istruzione o devono essere sviluppate con mezzi
diversi dalla mera istruzione. Il civismo è solo conoscenza
concettuale o è soprattutto competenza situata?
La prof di Palermo ha usato carta e penna nel tentativo di `educare'
un giovane che si è posto fisicamente davanti al compagno: è come
voler uccidere una tigre con l'immagine di un fucile, dare una
risposta su un piano concettuale che non può incrociarsi col piano
della realtà. Ogni cosa ha i suoi mezzi di apprendimento, gli
strumenti di pensiero si apprendono attraverso il pensiero stesso, gli
strumenti della socialità si apprendono solo attraverso la socialità
agita.
Se il provvedimento della professoressa è inefficace e sbagliato, è
l'intero impianto della scuola, fondato solo sull'istruzione senza
nessun contributo esplicito dell'educazione, ad essere inefficace.
Possibilmente faremmo meglio a porci queste domande piuttosto che
sovrapporci con medaglie o pene carcerarie al dramma della
professoressa, del bullo, dei suoi genitori, del ragazzo offeso, che
non è un dramma privato, ma quello di una intera civiltà incapace di
riscrivere il proprio rapporto con le nuove generazioni.

Cesare Moreno (di anni 60) – Coordinamento Pedagogico del Progetto
Chance – Sezione Aggiunta Sperimentale per il Recupero della
Dispersione Scolastica dell'Istituto Professionale "Davide Sannino" –
Napoli


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