Braccio di ferro (a colpi di Tar) tra governo e regioni sul dimensionamento delle scuole: «Niente di più lontano dal Pnrr»
Cosa cambierà dal 2024 con il decreto che prevede la riduzione graduale delle istituzioni scolastiche
Open online
Ygnazia Cigna
Affollamento delle classi, riduzione delle scuole, e taglio del personale scolastico. Questo è l’orizzonte che rischia di avanzare con l’attuazione del piano di dimensionamento della rete scolastica, previsto dalla Legge di bilancio 2023, tramite decreto interministeriale (Ministero dell’Istruzione e del Merito e Ministero dell’Economia e Finanze), e con effetti dal 2024. Il provvedimento ha, infatti, dato luogo a un vero e proprio braccio di ferro tra regioni e governo, ancora in bilico tra pronunce già espresse e ricorsi pendenti, e i sindacati sul piede di guerra. Gli effetti del decreto incideranno su più livelli, dal numero di scuole presenti sul territorio fino alla qualità di insegnamento che le stesse potranno ancora offrire.
Riduzione, smembramenti e accorpamenti delle sedi scolastiche
Il decreto prevede, infatti, la riduzione graduale del numero delle istituzioni scolastiche per ognuno dei prossimi tre anni scolastici (2024/2025, 2025/2026, 2026/2027). E le regioni sono particolarmente preoccupate per il numero minimo di 961 studenti richiesti per evitare accorpamenti. Numero che nel 2025 scenderà a 948 e nel 2026 a 938. Alessandro Rapezzi di FLC CGIL riferisce a Open le stime calcolate ad oggi: «Le 8.089 istituzioni scolastiche esistenti al 2023, attraverso smembramenti e accorpamenti di plessi e sedi, arriveranno a essere 7.309 nel 2026 con una conseguente soppressione di ben 780 unità scolastiche». Si parla quindi del 9% delle sedi esistenti.
Le conseguenze (che penalizzano il Sud)
Il taglio sarà progressivo, ma le ripercussioni sul sistema scolastico si vedranno fin da subito. Secondo regioni e sindacati ci sarà un taglio netto di centinaia di migliaia di posti tra dirigenti scolastici e Dsga, e numerose perdite di organico tra il personale ATA e tra i docenti. Senza dimenticare le conseguenze che più incideranno sulla vita scolastica degli alunni: le difficoltà di gestione dell’offerta formativa, soprattutto nelle regioni del Sud. Ad esempio, in Puglia si prevede un taglio del numero di istituzioni scolastiche da 627 nel 2023 a 569 nel 2024 (-58), in Campania da 965 a 839 (-126). Da qui nasce la protesta di queste due regioni che, oltre a Toscana, Emilia Romagna e al sindacato FLC CGIL, hanno deciso di impugnare il decreto ai Tribunali amministrativi regionali (Tar).
Lo scontro regioni-governo
Le quattro regioni hanno fatto ricorso sia alla Corte costituzionale, sia ai Tar per conflitto di competenze. L’accusa è che il piano di dimensionamento sia stato definito in modo unilaterale dal Ministero dell’Istruzione e dal MEF, senza un accordo in sede di conferenza unificata con le regioni, come richiederebbe la legge. Sono diversi gli approcci legali adottati da Campania, Puglia, Toscana ed Emilia Romagna. La Campania ha fatto ricorso al Tar regionale sia per il conflitto di competenze che per i contenuti del decreto che avrebbero effetto sulla regione. Ricorso che è stato accolto, provocando l’ira di Valditara che ha deciso di impugnare la decisione davanti al Consiglio di Stato. Ieri l’impugnativa è stata accolta. Diversa la situazione della Puglia, il cui ricorso chiedeva solo la sospensiva urgente per gli effetti del decreto relativi a tutto il territorio nazionale (quindi non solo regionale come sollevato in Campania). In questo caso la richiesta è stata bocciata, ma il prossimo 21 novembre ci sarà un’ulteriore udienza in camera di consiglio. I ricorsi di Emilia Romagna, Toscana e FLC CGIL sono ancora in corso.
Le motivazioni di Valditara: dal risparmio di 88 milioni di euro al Pnrr
Valditara contesta l’affermazione secondo cui il decreto taglierebbe il numero di scuole, spiegando che, invece, si agisce per accorpamenti di più plessi scolastici. E sono principalmente tre le motivazioni portate avanti dal ministro dell’Istruzione per giustificare il decreto sul dimensionamento. La prima è di natura economica: il provvedimento porterà risparmi pari a 88 milioni di euro in nove anni. La seconda riguarda l’efficienza delle reti scolastiche perché scomparirebbero le reggenze, ovvero il fenomeno per cui alle scuole con meno di 600 alunni (400 per le zone di montagna) viene assegnato un dirigente di un’altra scuola. La terza riguarda l’osservanza dei vincoli europei imposti dal Pnrr.
La furia dei sindacati: «Niente di più lontano dal Pnrr»
Su questo terzo aspetto si accende, però, lo scontro con i sindacati. «L’Europa chiede certamente di riorganizzare la rete scolastica, ma non dà mandato ai tagli», replica Rapezzi. Anzi, secondo FLC CGIL i suggerimenti dell’Ue «vanno in una direzione esattamente opposta a quanto si sta tentando di fare» anche perché «il Pnrr propone una logica di tutela per le regione del Sud che, invece, il decreto penalizza con tagli elevatissimi».
Spopolamento abitativo e scuola ridotta a burocrazia
Spopolamento abitativo e scuola ridotta a burocrazia Ciò che preoccupa ancor di più sia regioni che sindacati sono le ricadute sulla qualità della vita scolastica di studenti e personale scolastico, oltre che il potenziale svuotamento delle aree interne del Paese. «Accorpare gli istituti prevede che docenti e alunni dovranno cambiare sede scolastica, obbligando alcuni allievi e insegnanti, ad esempio, a frequentare sedi più lontane. Le sedi prescelte saranno chiaramente quelle più grandi e facilmente raggiungibili, pertanto quelle presenti nei centri urbani. Di fatto così si indeboliscono le aree interne del Paese», spiega Rapezzi. Il sindacalista ci tiene, inoltre, a sottolineare come il decreto – a suo avviso – riduca «l’identità delle scuole a qualcosa di puramente burocratico, con molti dirigenti scolastici che si troveranno a gestire istituti scolastici di comuni diversi, con prevedibili problemi organizzativi, oltre a essere messi nella posizione di dover dedicare meno tempo alla relazione con le famiglie, gli allievi e i docenti». Pertanto, evidenzia Rapezzi, si tratta di un piano che «aumenta il numero degli alunni per istituto, ma senza diminuire quello di allievi per classe, e quindi non fa altro che incentivare l’affollamento delle classi». A questo si aggiunge che «vengono incrementati lo spopolamento abitativo, la riduzione del personale scolastico e del numero di scuole, e la dispersione scolastica. Il tutto con effetti irreversibili sulla qualità dei processi formativi».