«Boicottiamo i test standardizzati». La rivolta degli studenti in America
Pietra portante del sistema scolastico Usa, sono sempre più contestati sia dai ragazzi che da genitori e prof. E il governo valuta ritorsioni economiche contro le scuole ribelli
di Carola Traverso Saibante
Da noi sono arrivati solo da qualche anno con l’introduzione dei questionari Invalsi e continuano a suscitare grosse diffidenze sia nei docenti che fra genitori e studenti. Ma in America i test standardizzati sono parte integrante del sistema scolastico da mezzo secolo. Eppure da qualche tempo anche nella culla dei questionari a risposta multipla qualcosa sembra essersi rotto: i test standardizzati sono diventati oggetto di feroci polemiche e boicottaggi in varie parti del Paese, al punto da costringere le autorità a ripensare il ruolo di queste prove nell’iter educativo.
Dalla Cina all’America con ardore
Onnipresenti in tutti i gradi d’istruzione in America, i «test standardizzati» sono quelle prove di valutazione progettate in modo da garantire condizioni di elaborazione e valutazione uguali per tutti gli studenti che vi si sottopongono, a prescindere dall’istituto scolastico o lo Stato da cui provengono. Messi a punto nella Cina imperiale, sono stati introdotti in Europa e in Nord America via Regno Unito. Gli Usa ne sono diventati accaniti sostenitori: in principio erano foglio matita; oggi si elaborano sul computer. L’ultima generazione di questi test si è adattata alle convinzioni didattiche contemporanee, per esempio enfatizzando il pensiero critico. Rispetto alla generazione precedente, forniscono più materiale per valutare le conoscenze e i progressi degli studenti.
Inefficaci, costosi e inadeguati
In circa tre dozzine di Stati americani, in questo semestre gli studenti sono chiamati a sottoporsi a questi test, dagli acronimi come PARCC e SBAC. Ma ecco la novità: per la prima volta c’è chi si ribella arrivando persino al boicottaggio. Il movimento che rifiuta queste prove di valutazione si espande a macchia d’olio, scavalca i confini statali e diventa trasversale: partito dai genitori, ha trovato il supporto del sindacato degli insegnanti e pare ora guidato dagli studenti stessi. Cosa si rimprovera a questi test? Di essere deboli e inefficaci, innanzitutto, nel riuscire a valutare davvero le capacità degli studenti. Una pratica molto costosa per le casse pubbliche, a cui le scuole destinano risorse economiche preziose, che potrebbero essere impiegate per sviluppare metodi d’insegnamento e di valutazione creativi, che riescano a coinvolgere maggiormente gli studenti rispetto a un test a risposta multipla. E ancora: la nuova generazione dei PARCC usati in New Jersey e altri 11 Stati è stata elaborata in collaborazione con un’azienda privata, la Pearson Education, e questa declinazione commerciale non convince, tanto più che i test – se non determinano la promozione degli studenti, giocano un ruolo decisivo nelle possibilità che questi hanno di beneficiare di programmi e aiuti speciali. E incidono sulla valutazione degli insegnanti, di quanto sono stati bravi con i propri alunni, che negli Stati Uniti vuol dire: incidono sul loro salario.
Il caso del New Jersey
Un caso per tutti, forse il più eclatante: quello del New Jersey. In questo Stato a sud di New York, il più popoloso degli Stati Uniti, la rivolta delle famiglie – portata avanti in primis via Facebook - contro i test PARCC (Partnership for Assessment of Readiness for College in Careers), a cui dovevano essere sottoposti tutti gli alunni tra gli 8/9 e i 16/17 anni, ha trovato ampio appoggio nei consigli d’istituto. A febbraio la Commissione Educazione dell’Assemblea dello Stato ha votato all’unanimità tre proposte di legge: moratoria di tre anni sui test; divieto di sottoporvi bambini dall’asilo fino al secondo grado (8 anni d’età), e libertà dei genitori di non farli fare ai figli. In marzo il più grande sindacato degli insegnanti dello Stato ha promosso una serie di feroci spot alla tv anti-test standardizzati. E adesso, mentre i politici stanno vagliando le misure da prendere, sulla scrivania del Ministero dell’Istruzione dello Stato è arrivata un’istanza – promossa da cinque cittadini – affinché stabilisca nuove regole per uniformare il modo con cui i genitori possano rifiutare di far sottoporre i figli al test. Una «petizione a legiferare», procedura rara che scavalca i passaggi legislativi standard e si appella direttamente all’autorità di competenza.
La politica dello «opt-out»
Il New Jersey, come molti altri Stati, non ha una legislazione specifica sulla possibilità degli alunni (e di fatto dei loro genitori) di decidere se chiamarsi fuori, «opt-out», da queste prove, cioè decidere di rinunciare a sottoporvisi. Al primo round di test, il mese scorso, si è chiamato fuori circa il 5 percento degli studenti, e un numero maggiore di defezioni si aspetta per il secondo, il mese prossimo - la protesta coinvolge soprattutto le comunità più benestanti, e per questo è stata bollata da alcuni come un’isteria snob. Le conseguenze concrete di tutto ciò non sono da sottovalutare: le scuole in cui oltre il 5 per cento degli studenti non partecipano ai test sono passibili di sanzioni da parte del governo federale, e teoricamente la perdita di finanziamenti potrebbe colpire gli alunni più svantaggiati. Anche a livello statale queste scuole potrebbero essere punite, e comunque il livello medio della scuola potrebbe risultare compromesso nell’immagine. Non si può ancora dire se e quanto questa protesta farà bene al sistema scolastico, certo almeno porta a una riflessione sul ruolo sempre più pressante di questi strumenti di valutazione, e ricorda a tutti che genitori e studenti sono e devono essere attivamente parte in causa nelle politiche educative del Paese.