Autonomia differenziata: la scuola regionale conviene agli studenti di Veneto e Lombardia?
La mobilità degli insegnanti è un bene, ma una scuola superiore più vicina al territorio può offrire molte potenzialità. Le opinioni di rettori, presidi, sindacalisti ed esperti.
Gianna Fregonara e Orsola Riva
La scuola a due velocità
Finora hanno protestato i sindacati, che vedono a rischio l’unità del sistema educativo nazionale e le regioni del Sud che temono tagli di fatto ai fondi per la scuola. La gaffe del ministro Bussetti ad Afragola non ha aiutato. E in un clima di crescente contrapposizione Nord-Sud venerdì il consiglio dei ministri dovrebbe dare l’ok all’intesa per l’autonomia differenziata di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna: in realtà ci sono ancora molte incertezze soprattutto su Sanità e Beni Culturali che fanno pensare ad un possi
Antonello Giannelli, presidente associazione nazionale presidi
«Credo che l’ipotesi che piace al governo sia quella di garantire la stabilità del corpo docente che spesso è compromessa dal fatto che i professori sono in maggioranza originari delle regioni del Sud e dunque, visti anche i magri stipendi, vogliono tornare al Sud. Noi, come associazione presidi, siamo a favore della stabilità perché garantisce la continuità didattica: per questo avevamo fatto la battaglia (persa, ndr) per la chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi perché ci sembrava un mezzo per garantire una maggiore stabilità. L’ipotesi dell’autonomia differenziata, per come si delinea nelle ultime bozze, apre la strada però anche ad un discorso sul reddito, visto che si parla di un eventuale contratto integrativo regionale: una sorta di gabbia salariale che per il pubblico impiego può essere un problema, facendo dipendere la remunerazione dalla residenza. Il rischio per gli studenti di Lombardia e Veneto è che alla fine non si trovino abbastanza insegnanti in loco. Si sa che nelle regioni settentrionali ci sono molti che preferiscono lavorare nel privato, anche se il lavoro può essere più impegnativo in termini di orario, ma può dare possibilità di stipendio e carriera maggiori. Come presidi ci auguriamo che sia una riforma ben scritta e ben pensata per evitare che si debba fare poi marcia indietro rapidamente».
bile rinvio. Poco si sa del testo messo a punto dalla ministra Lezzi (testo che dovrà poi passare al voto in Parlamento a maggioranza qualificata) ma quel che sembra certo è che la scuola diventerà regionale. Non i programmi perché sarebbe incostituzionale, ma gli insegnanti. Quelli nuovi soltanto perché sarebbe troppo complicato e giuridicamente rischioso «spostare» alla Regione chi è già in servizio, magari da molti anni, come dipendente dello Stato. La retorica dei governatori in queste settimane si affida a due messaggi principali: basta insegnanti che vengono da altre regioni (leggi il Sud), sì a stipendi più alti agli insegnanti veneti o lombardi. Ma la scuola regionale conviene alla scuola (leggi: studenti, professori, famiglie) di Veneto e Lombardia? Ecco che cosa ne pensano gli esperti e i diretti interessati.
Francesco Avvisati, analista Ocse-Pisa
« In molti Paesi vicini a noi (Germania, Spagna, Svizzera), l’istruzione è una competenza regionale. Eppure è l’Italia, che si caratterizzava finora per una limitata autonomia regionale e scolastica per la gestione delle risorse, ad essere il campione d’Europa delle diseguaglianze regionali negli esiti dell’istruzione. Se il timore è che l’autonomia accresca i divari territoriali, ci si sveglia un po’ tardi: la situazione che prevaleva finora non ha fatto molto per attenuare questi divari. Gli insegnanti sono la risorsa più importante nelle scuole di oggi, e non solo da un punto di vista contabile. In tutto il mondo gli sforzi di riforma dell’istruzione dedicano negli ultimi anni sempre maggiore attenzione a riformare la professione docente. Il successo del decentramento delle politiche di istruzione, quindi, si misurerà proprio dalla capacità delle regioni a usare i nuovi poteri per attirare, accompagnare, e formare docenti che rispondono alle esigenze delle diverse realtà educative locali – eventualmente devolvendo ulteriormente alcune di queste funzioni a livello di scuole, o di reti locali. Gli aspetti monetari non devono essere l’unica variabile del contratto di lavoro da considerare: accanto ad essi, la formazione continua nell’ambito di un piano di apprendimento negoziato tra l’insegnante e i suoi superiori, la creazione di profili diversificati per la carriera, e la valutazione possono permettere di attrarre i migliori talenti nelle aule e di costruire la scuola di domani nell’interesse degli studenti».
Rosario Rizzuto, rettore dell’Università di Padova
«Una qualche forma di leva economica per riuscire a trattenere i nostri bravi laureati che altrimenti scelgono altre destinazioni è la benvenuta, purché però il tutto sia fatto in una logica di sistema nazionale, ovvero senza danneggiare le regioni meridionali». Rosario Rizzuto, rettore dell’università di Padova, non pensa solo al personale della scuola ma, da medico alla guida di un’università che vanta autentiche eccellenze internazionali nel campo della medicina, anche ai medici «che noi formiamo in modo egregio ma poi vanno a lavorare all’estero». «Lo stesso problema - aggiunge - c’è con gli insegnanti. In regioni come la nostra, dove la concorrenza del privato è forte, un laureato in ingegneria o in informatica non è certo attratto dalla prospettiva di diventare prof alle medie o alle superiori». Per questo l’idea di pagare di più i docenti del Veneto e della Lombardia, almeno nella parte accessoria dello stipendio, incontra il suo favore. «Ma, ribadisco, solo in un’ottica di equilibrio nazionale».
Giovanni Azzone, ex rettore del Politecnico di Milano
«Distinguerei il giudizio: per quanto riguarda la scuola elementare e media non vedo un’esigenza di una autonomia pedagogica e formativa su base territoriale. Per quanto riguarda invece l’istruzione secondaria, soprattutto quella tecnica in senso lato, l’integrazione con il contesto produttivo è molto utile, soprattutto in regioni dove il sistema economico è robusto. Penso a certe esperienze di scuola-lavoro che si possono focalizzare in alcuni settori. Per il sistema universitario può essere ancora più forte l’interazione con il contesto economico e il sistema dell’innovazione, che è ciò che oggi rende competitivi, se si riescono a far convergere e interagire persone che vengono anche da mondi diversi. Lo scopo però della maggiore vicinanza tra istruzione e territorio deve essere quello di attrarre docenti da dove ci sono potenzialità, non che i lombardi insegnino ai lombardi in una visione chiusa che non avrebbe alcun senso».
Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia generale alla Bicocca
«Dal punto di vista pedagogico non riesco a vedere un vantaggio nella regionalizzazione degli insegnanti», dice Raffaele Mantegazza, professore di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano. L’idea di dare insegnanti veneti al Veneto e lombardi alla Lombardia proprio non gli piace. «La mobilità di per sé non è un problema, ma una risorsa - dice -, a meno che non si pensi veramente che gli insegnanti del Sud siano meno bravi di quelli del Nord. Provocazione per provocazione, perché non incentivare semmai un percorso in senso contrario, facendo in modo che un neolaureato di Bergamo vada a insegnare per qualche anno a Napoli?». Secondo Mantegazza, il vero nodo da sciogliere non è la mobilità ma il precariato. Per assicurare alle scuole settentrionali tutti i docenti che servono in tempo utile, evitando di lasciare cattedre scoperte anche fino a Natale, basterebbe intervenire sui tempi delle nomine, «anticipandole da fine agosto, come succede adesso, all’inizio dell’estate, in modo che quando suona la prima campanella ognuno sia al suo posto». Quanto all’idea di pagare di più gli insegnanti settentrionali, «così si introducono solo elementi di ulteriore complicazione, per non dire di discriminazione. Già la quota premiale (introdotta per legge tre anni fa dalla cosiddetta Buona Scuola, ndr) ha suscitato un vespaio, figuriamoci le gabbie salariali...».
Caterina Spina, FLC Cgil Milano
«L’autonomia differenziata non è pensata per il bene della scuola, nemmeno delle scuole venete e lombarde - taglia corto Caterina Spina, segretaria generale Cgil scuola della provincia di Milano -. Dobbiamo ringraziare il ministro Bussetti per aver svelato durante la sua visita ad Afragola qual è il vero retropensiero di questa legge: che per risolvere i problemi delle scuole del Nord basti liberarsi del peso morto del Sud. Quanto ai soldi: zero». Spina ci tiene a ribadire le ragioni del no dei sindacati a quella che loro definiscono la «secessione dei ricchi»: «L’istruzione è un diritto costituzionale indisponibile: il diritto allo studio non può dipendere da dove uno abita, tanto più in un Paese come il nostro con enormi divari fra regioni ricche e povere. E’ pazzesco che una materia così importante sia affrontata a livello di accordi Stato-Regioni bypassando di fatto il Parlamento. Ancora oggi circolano solo delle bozze semi segrete». E cosa dicono queste bozze? «Da quello che è dato sapere, la regionalizzazione non riguarderebbe solo gli organici ma anche aspetti cruciali come la programmazione formativa, l’alternanza scuola-lavoro, il sistema di valutazione, il rapporto con le paritarie». In questo modo, secondo Spina, si mette a rischio la tenuta dell’unità nazionale, quando in fondo già adesso (in base alla legge Gelmini, ndr) ciascuna scuola ha a disposizione una quota oraria del 20 per cento che può declinare in modo autonomo rispetto al curriculum nazionale. «Ma la verità - conclude Spina - è che il discorso sull’autonomia differenziata serve solo a mascherare il fatto che non si vogliono fare investimenti sulla scuola».