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Atenei, non svendiamo il nostro patrimonio

Maurizio Mori-Ordinario di Bioetica all'Università di Torino

09/07/2012
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l'Unità

SIA PURE NELL’INDIFFERENZA DEI MEDIA, LA MACCHINA UNIVERSITARIA PER IL RICAMBIO DEIDOCENTI È PARTITA.Si tratta di un processo decisivo per il futuro del Paese, visto che il risultato porterà a individuare l’intellighenzia che formerà la classe dirigente dell’Italia a venire. La cosa che più ha interessato la stampa è stata la sistematica denigrazione dell’università, quasi fosse in balìa di «baroni» strapagati e fannulloni che meritano solo di essere messi in riga. Si è dimenticato totalmente che quando i nostri giovani vanno all’estero alla ricerca di un lavoro negato in patria, trovano subito ottime posizioni perché la preparazione ricevuta all’università è tra le migliori al mondo. Segno che, pur tra tante manchevolezze e pecche, l’Università italiana ha funzionato e funziona. Le difficoltà non mancano, ma si tratta di sapere se la cura proposta non sia peggiore del male. Le diagnosi sono molte e una di grande valore è stata fatta dal collega dell’università Cattolica, Adriano Pessina, in un fine articolo visibile sul sito di filosofionline (https://www.filosofionline.com/?p=547), da cui prendo alcuni spunti, come altri dal bel Documento della Società Italiana di Filosofia Politica (https://www.nuovarivistastorica.it/?p=3747). Uno dei principali problemi della riforma in atto è la contraddittorietà degli obiettivi: l’università si qualifica per la ricerca, ma poi assume le persone solo per le esigenze della didattica. Ci si lamenta che i professori sono troppo vecchi, ma non si fanno concorsi per i giovani. Si vuole l’eccellenza, ma si promuove una università di massa. Si fanno le lauree brevi, ma poi si inventano percorsi che non finiscono mai: lauree specialistiche, master, dottorati ecc. Questo capita perché manca una «idea di università» adeguata ai nostri tempi, una università che sia capace di pensare le prospettive di una società sempre più scientifica ma socialmente multietnica e culturalmente pluralista. Invece di tenere conto di queste diverse esigenze che si giocano su vari livelli, si è proceduto a una «normalizzazione» che tiene presente solo modello esteso poi a tutti i settori disciplinari, senza tenere conto della peculiarità dei diversi ambiti e livelli. Quest’aspetto emerge chiaramente nelle procedure di valutazione per la «abilitazione» (i concorsi). Al riguardo si è costituita una nuova agenzia (l’Anvur) che ha il compito di valutare sia i «prodotti» dei docenti sia il valore delle università: una sorta di agenzia di rating in cui esaminati e esaminatori si scambiano gli abiti. Ma se gli esaminatori sono scientificamente screditati, com’è che fanno a valutare in modo scientifico e corretto? Inoltre, l’Anvur ha imposto il modello unico, così che, per esempio, «valgono» più gli articoli su riviste che i libri, e quelli scritti in lingua straniera (l’inglese in primis!) che quelli in italiano, ecc., perché nelle scienze naturali conta questo. Per non parlare dell’idea di arruolare nelle commissioni di concorso docenti stranieri, dimenticando le difficoltà connesse alla lingua, alle corrispondenze disciplinari e, anche, alla retribuzione dovuta per un compito tanto gravoso e delicato. Senza il «certificato» di un collega straniero, i professori italiani non sono in grado valutare la preparazione dei nostri «giovani»? Non è questo svendere il nostro patrimonio culturale o riconoscere la nostra subordinazione?


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